Caso Montante, dopo Report parla presidente Antimafia «Dubbi su attentato ad Antoci di cui archiviate le indagini»

«Lasciano tanti dubbi il fallito attentato ad Antoci di cui sono state archiviate le indagini, il ruolo di Banca Nuova e di Zonin e soprattutto la rete costruita da Montante come anche la mancata costituzione di parte civile del ministero dell’Interno». Dopo la nuova puntata di ieri sera di Report sul caso Montante interviene il presidente della commissione nazionale antimafia Nicola Morra, promettendo di «fare quanto in mio potere per andare fino in fondo in relazione al codice Montante».

La trasmissione della Rai, con il giornalista Paolo Mondani e la collaborazione di Norma Ferrara, torna in Sicilia per seguire il filo di una narrazione lasciata aperta nella puntata dello scorso novembre. E ricomincia da dove aveva concluso: e cioè i rapporti di Antonello Montante, ex numero uno di Confindustria siciliana a processo a Caltanissetta, con Banca Nuova, istituto siciliano fondato da Gianni Zonin, ex presidente della Banca popolare di Vicenza, e «creata dai servizi segreti», che lì avevano i propri conti fino al 2014. «Montante è stato un investimento per i servizi», spiega una fonte interna alla banca. Perché l’istituto di credito sarebbe diventato centrale di scambio di informazioni, dove avrebbero trovato porte aperte numerosi politici siciliani. Non solo per i propri conti correnti, ma in alcuni casi, anche per contrarre prestiti: come Calogero Mannino, ma anche, rivela la fonte a Report, «l’assessore Gaetano Armao, gli editori Mario Ciancio Sanfilippo (oggi a processo per concorso esterno ndr) e Antonio Ardizzone, e l’imprenditore della Ksm Rosario Basile».

Un centro di potere dove Montante avrebbe avuto un ruolo chiave, dimostrandosi, è questa la tesi dell’inchiesta, non dominus di un sistema tutto suo, ma tassello di un sistema decisamente più ampio. Ed è in questa maglia intricata che si inserisce un nuovo inquietante episodio: la possibilità che una copia delle intercettazioni tra l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino (intercettazioni registrate dalla Procura di Palermo durante l’indagine del processo Stato-Mafia, mai depositate agli atti perché «penalmente irrilevanti» per ammissione degli stessi pm, e infine distrutte dopo decisione della Consulta) sia finita in mano a Montante. A dargliele, stando alla ricostruzione di Report, potrebbe essere stato l’ex capo centro della Dia di Palermo Giuseppe D’Agata, poi passato ai servizi segreti civili e a processo insieme allo stesso Montante. D’Agata infatti era il titolare delle indagini sulla Trattativa all’epoca delle famose intercettazioni. Nelle carte dei pm di Caltanissetta viene ricostruita la consegna di una pen drive di D’Agata all’ex numero uno di Sicindustria e la preoccupazione del carabiniere quando la squadra mobile nissena scopre l’archivio segreto di Montante.

La nuova inchiesta tocca anche due politici del Pd vicini a Montante: l’ex deputato Giuseppe Lumia, definito il padrino politico dell’imprenditore, e Giuseppe Antoci, oggi responsabile nazionale Legalità del partito. Per quanto riguarda il primo, l’imprenditore nisseno Pietro Di Vincenzo – capofila della cordata che Montante mette da parte durante la svolta legalitaria di Confindustia Caltanissetta, oltre che condannato a dieci anni già scontati per estorsione contrattuale, e assolto in un processo per concorso esterno ma comunque destinatario di un provvedimento di confisca da oltre 280 milioni di euro – racconta di aver versato cento milioni di lire alla fine degli anni ’90, tramite l’allora presidente dell’Asi, destinati a Lumia. Che smentisce, dicendo: «Sono un condannato a morte della mafia».

Quindi il giornalista di Report realizza due interviste a proposito dell’attentato che Antoci ha subito la notte del 17 maggio 2016, episodio su cui le indagini della Procura di Messina si sono arenate, finendo archiviate. Lasciando però, come raccontato da MeridioNews nella ricostruzione di due anni di approfondimenti, una serie di domande irrisolte e qualche incoerenza. Il primo a rispondere alle domande di Mondani è stato l’allevatore Giuseppe Foti Bellingambi, uno dei 14 indagati poi archiviati per l’attentato ad Antoci nonché destinatario di interdittiva antimafia. «Con chi parlavi parlavi in paese, si parla di politica, di un attentato falso». Di maggiore peso è la testimonianza di Mario Ceraolo, avvocato ed ex dirigente del commissariato di Barcellona Pozzo di Gotto. Di lui si parla già nel decreto di archiviazione dei pm di Messina, perché il 12 aprile 2017, durante le indagini sull’attentato, Ceraolo deposita una relazione su alcuni colloqui avuti con gli uomini della scorta di Antoci in merito all’agguato, durante i quali i due poliziotti avrebbero raccontato una versione dei fatti diversa in alcuni dettagli molto rilevanti rispetto a quella fornita ai magistrati. A Report l’ex dirigente di polizia aggiunge un alto tassello, rivelando che, subito dopo l’attentato, il procuratore capo di Messina Guido Lo Forte chiede a Ceraolo, allora alla guida del commissariato di Barcellona, di sollecitare tutte le fonti più vicine alla cosca di Barcellona in merito all’agguato. «La risposta è stata unanime – spiega Ceraolo – tutte le fonti hanno riferito che la mafia non c’entrava nulla e che si trattava di una babbarìa». Affermazioni che Antoci definisce opera di «zelanti mascariatori».

Ora però anche su quest’ultimo episodio, per la prima volta, un rappresentante delle istituzioni come Nicola Morra, presidente della commissione nazionale antimafia, alza la voce parlando di «tanti dubbi» sull’archiviazione delle indagini. «Il caso Montante – continua – lascia sgomenti per la capacità di infiltrazione nelle istituzioni, ma ancora di più lascia sgomenti il silenzio che si vuole far calare su questo processo e le continue e devastanti rivelazioni che stanno venendo a galla. La politica tutta dovrebbe avere un sussulto e far sentire la propria voce davanti al dipanarsi di una e propria vera loggia che agisce contro lo Stato».


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