L’agguato ad Antoci, tutti i dettagli di due anni di indagini Le presenze sospette, il mistero del sangue e il falso pentito

Quattordici indagati, tra chi si è visto tagliare fuori dalla ricca torta dei fondi europei e soggetti sospetti che la sera dell’agguato sono stati notati negli stessi luoghi di Giuseppe Antoci. Due anni di indagini costellate da test di dna, intercettazioni a tappeto, analisi di migliaia di tabulati telefonici, ricostruzioni tecniche affidate alla polizia scientifica di Roma. Un lungo lavoro investigativo segnato anche da battute d’arresto e da dubbi, a causa di esposti anonimi contenenti «informazioni riservate», dichiarazioni di un falso pentito e quelle, di ben altro peso, di un poliziotto che sulla notte dell’attentato fornisce una versione differente da quella dei diretti interessati. E nonostante tutto, un buco nell’acqua. La direzione distrettuale antimafia di Messina non è riuscita a individuare i responsabili dell’agguato all’ex presidente del parco dei Nebrodi e alla sua scorta la notte tra il 17 e il 18 maggio del 2016. E la richiesta di archiviazione dei pm perloritani è stata accolta dal Tribunale. Cala il sipario, a livello giudiziario, su una vicenda che però continua a far discutere. 

LE INDAGINI
Le presenze sospette la sera dell’agguato – Le indagini della Dda cercano di fare chiarezza su quanto successo quella notte, tra le 21.30 e l’1.55. Cioè da quando Antoci lascia il Comune di Cesarò, dove ha partecipato a una riunione su invito del sindaco Salvatore Calì, al momento dell’attentato. Uscito dal municipio, l’allora presidente del parco, sempre su suggerimento del sindaco, raggiunge il ristorante Il Mazzurco per cenare insieme a Calì e al commissario di Sant’Agata di Militello Daniele Manganaro. In questa fase viene annotata la presenza di soggetti ritenuti sospetti. Durante il tragitto per il ristorante, Calì confida a Manganaro di aver notato «vedette di gruppi mafiosi». Si tratta di una Golf nei pressi del Comune guidata da Letterio Cerro (indagato per l’omicidio di Giuseppe Conti Taguali nel dicembre 2014 e, annotano i pm, «inserito in contesti mafiosi») e di una Smart posizionata davanti al ristorante guidata da Nicola Karra, cognato di Cerro. Presenze confermate dalle telecamere di videosorveglianza del Comune. Anche all’interno del locale spicca la presenza di cinque persone, tutte con precedenti penali: sono Daniele Destro Pastizzaro, anche lui indagato per l’omicidio di Giuseppe Conti Taguali; Sebastiano Destro Pastizzaro, Carmelo Fabio, Antonino Foti detto Biscotto, e Giuseppe Calà Campana, nipote della convivente del boss ergastolano Giovanni Pruiti. Le telecamere interne al ristorante immortalano il sindaco Calì che, dopo essersi recato alla toilette, si ferma per qualche minuto a salutarli. Successivamente due di questi, Campana Calà e Foti, si avvicinano al tavolo di Calì, Antoci e Manganaro. 

I soggetti danneggiati dalle interdittive antimafia – I sette uomini visti quella sera finiscono tra gli indagati insieme a quelli che, dopo il protocollo di legalità voluto da Antoci, hanno ricevuto l’interdittiva antimafia perdendo l’affidamento di migliaia di ettari di terreni grazie ai quali, per anni, hanno intascato i contributi europei. Si tratta di Carmelo Triscari Giacucco, fratello di Antonietta, titolare di concessione e moglie di Pruiti; i fratelli Giuseppe Foti Bellingambi e Sebastiano Foti Belligambi (quest’ultimo ha presentato istanza per i terreni insieme a Federica Pruiti, sorella di Giuseppe e Giovanni Pruiti, ritenuti elementi di spicco della mafia di Cesarò); Sebastiano Musarra Pizzo; Salvatore Armeli Iapichino, detto Zicchinetta, e Giuseppe Conti Taguali.

Dalle indagini però non emerge nulla di significativo. I profili genetici (due diversi, riconducibili a individui di sesso maschile), ricostruiti dal dna trovato su cinque cicche di sigarette (tre Rothmans, una Camel e una B&H) rinvenute sul luogo dell’agguato, non corrispondono a nessuno dei 14 indagati. Inoltre, tra la mezzanotte e le tre del 18 maggio, nessuna delle utenze telefoniche intestate o in uso agli indagati è presente nell’area di copertura di cella della zona interessata dall’agguato. I pm sono andati oltre: hanno isolato tutte le utenze attive in quella fascia oraria e in quell’area geografica e ne hanno monitorato i tabulati telefonici nel mese precedente e in quello successivo all’agguato. Ma anche così non sono venuti fuori contatti o relazioni con gli indagati. Nessuno spunto significativo neanche dalle intercettazioni, al netto di una particolare cautela e alcune bonifiche sulle auto. Anzi, in più di un’occasione gli indagati prendono palesemente le distanze dall’agguato. 

LE GIUSTIFICAZIONI DEGLI INDAGATI
«Questi sono convinti che questa cosa era la nostra». «Ma tu con chi parli parli, dice: questo attentato se lo sono fatti loro». «A noialtri mai potrebbe venire questa idea, mai ci potremmo arrivare. Noialtri ci viene che (pensiamo a, ndr) dobbiamo vendere il porcello». I fratelli Foti Bellingambi non si danno pace di essere finiti nel mirino degli investigatori. E ne parlano apertamente diverse volte, mentre sono intercettati.

In particolare il 15 novembre del 2016 i due commentano uno strano episodio di cronaca avvenuto qualche giorno prima: una falsa intimidazione a danno di Santo Pappalardo, titolare del mattatoio di Troina. «Santo t. finirà come Antoci», ma la frase è scritta dallo stesso Pappalardo. «Quello stupido di Santo, mah, le persone sono pazze», dice Sebastiano Foti Bellingambi. «Ma il bello – replica il fratello Giuseppe – che in tutta questa storia ci siamo invischiati noialtri senza mangiarne e nemmeno berne. Ma poi perché ha fatto questa minchiata io non l’ho capito. E io ho pensato a questo fatto, che hanno sparato a questo Antoci, ma non può essere che qualche bestia ha fatto come lui, come Santo?». «E che non può essere – ribatte l’altro – e pure che lo hanno scoperto non hanno le prove e non possono fare nulla». «Ci voleva che li prendevano a chi veramente lo aveva fatto, gli rompevano il culo per come si doveva, senza pietà […] a chi l’ha architettata e a chi l’ha fatto». Dialoghi intercettati mentre i due non sanno ancora, almeno formalmente, di essere indagati (l’avviso di garanzia scatterà nel marzo del 2017 al momento della convocazione per l’esame del dna, ndr), anche se già nelle ore successive all’agguato le attenzioni si focalizzano sugli allevatori danneggiati dalle interdittive antimafia. 

LA RICOSTRUZIONE DELL’AGGUATO FORNITA DAI DIRETTI INTERESSATI
Intorno all’1.55 del 18 maggio 2016 la Lancia Thesis blindata, con a bordo Antoci e i due uomini della scorta Sebastiano Proto e Salvatore Santostefano, è costretta a fermarsi al chilometro 26 della strada tra Cesarò e San Fratello. È il luogo dell’agguato. Poco dopo giunge anche la macchina di servizio del commissario Daniele Manganaro, guidata dal collega Tiziano Granata. È sulla base delle loro testimonianze che la Dda ha cercato di ricostruire esattamente cosa è avvenuto. Ma prima di passare a quanto da loro riferito, è bene ricordare che oggi uno di quei poliziotti non c’è più: Granata, 40 anni, è stato trovato morto l’1 marzo, secondo l’autopsia per un arresto cardiaco; il giorno dopo è morto Rino Todaro, agente del commissariato di Sant’Agata di Militello e componente della squadra guidata da Manganaro che ha indagato sulla mafia dei pascoli, per una sospetta leucemia fulminante. Su entrambi i casi sono in corso indagini per fare ulteriore chiarezza. Manganaro, invece, è stato recentemente trasferito al commissariato di Tarquinia (Viterbo). 

All’indomani dell’agguato, interrogati dai magistrati, sia Manganaro che Granata riferiscono di aver visto qualcuno «armato e travisato» che indossava «una giacca mimetica». In particolare Granata afferma di avere intravisto «una o due sagome, forse in tuta mimetica, imbraccianti un fucile a bordo strada e distinto l’esplosione di alcuni colpi di fucile», provenienti non dalla sede stradale, ma «dalla scarpata, dalla cunetta». Manganaro spiega di aver cominciato a sparare con la pistola dal finestrino, di essere sceso e poi di aver esploso altri colpi verso il buio degli alberi. Quindi, messi in fuga i presunti attentatori, avrebbe fatto salire Antoci sulla macchina di servizio insieme al caposcorta Santostefano, portandolo al sicuro al rifugio della Forestale detto Casello Muto. Su questo punto le versioni di Manganaro e Santostefano divergono leggermente: il commissario riferisce che è Santostefano a dire «portiamoci subito il presidente», il caposcorta invece sostiene che sia stato Manganaro a dare l’ordine. 

La Dda di Messina affida alla polizia scientifica di Roma il compito di capire se la ricostruzione dei poliziotti sia verosimile dal punto di vista scientifico. Gli investigatori concludono che «dallo studio dei fori, la posizione dichiarata dai soggetti coinvolti nella quale avrebbero visto gli sparatori, risultava essere una delle possibili posizioni compatibili con i coni di traiettoria individuati». Per la scientifica, chi ha sparato ha usato un fucile calibro 12 e si trovava nel terrapieno adiacente il ciglio del manto stradale. Inoltre gli esperti ritengono possibile che Granata e Manganaro avessero «intravisto le sagome degli attentatori, sentito i colpi e osservato eventuali vampe di fiamma dal fucile». In più sottolinea che gli spari, per la direzione e la distanza, non erano idonei a uccidere Antoci (altrimenti avrebbero mirato al finestrino), ma molto probabilmente erano finalizzati a farlo scendere dal mezzo.

IL FALSO PENTITO
Nel novembre del 2016 Massimiliano Mercurio, in carcere per diversi precedenti per reati contro il patrimonio, chiede di essere sentito perché ha cose da dire sull’attentato ad Antoci. Interrogato il 2 marzo del 2017, riferisce di aver appreso dal palermitano Roberto Mandalà, con cui aveva condiviso un periodo di detenzione nel carcere di Sanremo, che l’agguato era stato voluto da Cosa Nostra palermitana per «i soldi della Comunità europea». Indica mandanti ed esecutori, tra cui esponenti della famiglia di Brancaccio, precisando che gli attentatori avevano ricevuto il mandato di intimorire Antoci e non di ucciderlo. «Perché c’è stata l’altra volante, per questo si è salvato – dice Mercurio ai pm – Che poi non volevano uccidere, per fargli mettere paura, però la prossima volta che succede lo ammazziamo». Ma Mercurio, così come accaduto per altri procedimenti, non è ritenuto attendibile: non c’è traccia di un suo coinvolgimento in contesti di criminalità organizzata, così come per Mandalà, il soggetto da cui avrebbe ricevuto le confidenze.

I DUBBI DI UN COLLEGA POLIZIOTTO
Mario Ceraolo, dirigente del commissariato di Barcellona Pozzo di Gotto ed ex assessore designato da Dino Bramanti alle recenti elezioni a Messina, conosce Tiziano Granata da vecchia data. Entrambi sono originari della stessa frazione del Comune di Piraino. Il 12 aprile 2017, Ceraolo deposita una relazione su alcuni colloqui avuti con Granata e Manganaro in merito all’agguato, durante i quali i due poliziotti avrebbero raccontato una versione dei fatti diversa in alcuni dettagli molto rilevanti rispetto a quella fornita ai magistrati. Dopo l’uscita dal ristorante «Granata mi disse che Manganaro iniziò a essere impaziente per partire perché aveva notato movimenti di persone sospette. “Mi disse andiamocene e raggiungiamo Antoci, abbiamo fatto anche una scorciatoia per raggiungerlo”. Granata mi ha detto di non aver visto né persone né sparare, mi ha detto “io non ho visto nessuno sul luogo”. Lui ha detto di aver appreso da Manganaro, ritengo in un momento successivo, che Manganaro aveva intravisto nel bosco allontanarsi una persona che indossava pantaloni con i colori mimetici». Versione che non coincide con quella messa agli atti da Granata, che afferma di aver sentito degli spari e di aver visto alcune sagome. 

Ceraolo va oltre e racconta di un’altra conversazione telefonica in cui, alcuni giorni dopo l’agguato, Manganaro gli avrebbe confidato alcune sue considerazioni personali. «Lo definì un commando di catanesi di almeno dieci-dodici persone che riteneva fossero distribuite a destra, in una posizione sopraelevata rispetto alla strada, e a sinistra, in base al numero di cicche di sigarette rinvenute sul posto». E aggiunge: «Lui mi disse che riteneva di aver colpito qualcuno perché erano state trovate tracce di sangue».

Sentiti dai magistrati della Dda, sia Granata che Manganaro hanno smentito le dichiarazioni di Ceraolo e lo hanno denunciato per calunnia. In particolare Manganaro si è detto convinto che Ceraolo fosse spinto da astio nei suoi confronti per vicende legate ad avanzamenti di grado. «Vuole distruggermi la carriera», sostiene il commissario. La Procura, dal canto suo, si limita a sottolineare che, «a prescindere da ogni valutazione sulla fondatezza o meno delle dichiarazioni del Ceraolo circa le modalità con cui sarebbe avvenuto l’agguato (per questa vicenda pende altro procedimento penale scaturito dalle denunce per calunnia), le indicazioni non hanno fornito contributo utile all’individuazione degli autori».

Resta tuttavia un dettaglio non chiarito: subito dopo l’agguato, diversi articoli di stampa riportano, sulla base delle testimonianze dei soggetti coinvolti, il ritrovamento di alcune gocce di sangue sull’asfalto. «Il sangue – disse l’ex presidente Rosario Crocetta in conferenza stampa – sarebbe di uno dei componenti del commando di fuoco rimasto ferito durante la sparatoria». Ma di quel sangue non c’è traccia nelle indagini, non se ne fa mai menzione nelle cento pagine con cui la Dda di Messina ha chiesto l’archiviazione del caso. E l’esame del dna si è basato solo sulle cicche di sigarette. 

GLI ESPOSTI ANONIMI
Nel corso delle indagini sono arrivati negli uffici della Dda numerosi esposti anonimi che mettevano in dubbio la veridicità del fatto, sostenendo la tesi di «una simulazione finalizzata a ragioni di tornaconto politico e professionale». Si fa riferimento a un presunto ritardo nel dare l’allarme da parte di Manganaro e si avanza il dubbio che in realtà i massi occupassero solo metà della sede stradale e, per questo, si sarebbero potuti aggirare. «Ma nessuno degli elementi concernenti lo svolgimento dell’attentato e indicati negli esposti come anomali e indicativi di una messinscena hanno trovato un significativo riscontro», conclude la Procura. I magistrati sono convinti, sulla base di alcune informazioni riservate contenute negli esposti, che gli autori siano da ricercare tra persone in grado di essere aggiornate sull’indagine. Scattano quindi approfondimenti, ma anche in questo caso non sono stati acquisiti elementi utili per risalire all’identità degli autori. L’ennesimo aspetto non chiaro di una storia con troppi buchi neri.


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