Pachino, il rogo doloso nell’azienda dei fratelli Fortunato Ombre su ditta espulsa dal consorzio per il pomodorino

«Io ancora il capomafia di Pachino? Dovrebbero venire a dirmi in questi anni in cosa ho mafiato». La voce al telefono è quella di Salvatore Giuliano, dipendente di Fenice srl, azienda agricola specializzata nella commercializzazione del pomodoro che rende famosa nel mondo la località del Siracusano. Titolari della ditta sono Simone Vizzini e Gabriele Giuliano, quest’ultimo figlio di Salvatore. Il nome della società è finito al centro dell’attenzione a febbraio, dopo che il quotidiano La Spia ha pubblicato alcuni articoli nei quali si sottolineava l’appartenenza di Fenice al Consorzio di tutela del pomodoro di Pachino Igp, nonostante il curriculum criminale di Salvatore Giuliano. Per il quotidiano, il passato dell’uomo – costellato da una lunga detenzione in carcere per condanne per associazione mafiosa, traffico di stupefacenti ed estorsione – unito a grane più recenti – Giuliano è accusato di concussione e spaccio di droga, in un’inchiesta in cui sono coinvolti anche l’ex sindaco Paolo Bonaiuto e due consiglieri attualmente in carica – avrebbero dovuto inibire la permanenza di Fenice all’interno del consorzio. Pochi giorno dopo le cose sono cambiate: l’1 marzo, il neopresidente del consorzio, Salvatore Lentinello, ha ratificato una delle ultime decisioni assunte dal dimissionario Sebastiano Fortunato riguardante l’esclusione per morosità dell’impresa di Giuliano dal consorzio, il cui regolamento prevede che le imprese versino annualmente una quota proporzionale al venduto. 

Venti giorni dopo, la vicenda, che sembrava destinata a essere archiviata come una querelle interna al settore, è tornata alla mente di quanti ieri mattina si sono svegliati con la notizia del grosso incendio che ha danneggiato l’azienda che Sebastiano Fortuanto gestisce insieme al fratello Joseph. Un rogo che da subito è apparso doloso. «Ci sono pochi dubbi – commenta a MeridioNews Joseph Fortunato -. Per arrivare al punto in cui sono divampate le fiamme bisogna che qualcuno abbia avuto un intento preciso». L’ipotesi, seguita anche dagli investigatori, ha spinto molti pachinesi a chiedersi chi possa essere stato l’autore del gesto, chi il mandante. E così, mentre i proprietari dell’impresa colpita negano di avere mai ricevuto richieste estorsive o pressioni di altro tipo, relegando alla piccola criminalità anche il furto di fertilizzanti subito nei giorni precedenti all’incendio, qualcuno in paese ipotizza possa essersi trattato di una ritorsione. «È una notizia che ha colpito tutti noi che facciamo parte del consorzio – commenta il neopresidente Lentinello -. La mafia nel pomodorino di Pachino? Non mi risultano casi di estorsione alle imprese del settore».

C’è però anche chi nega ogni connessione. È il caso proprio di Giuliano, che risponde alle domande di MeridioNews, dopo che questo giornale ha provato a contattare il figlio Gabriele. «Ogni riferimento alla nostra attività è una fantasia per denigrarci – replica -. Andiamo nelle serre ogni mattina alle 5 e lavoriamo duramente». Giuliano esclude categoricamente che l’espulsione di Fenice dal consorzio c’entri con quanto accaduto all’azienda dei fratelli Fortunato. «Li conosco da tanto, siamo conosciuti insieme e vivevamo vicini – continua -. Ho saputo dell’incendio ieri mattina, ce l’hanno detto i braccianti. Non sono andato a dargli la mia solidarietà perché, dopo queste voci sui giornali, uno si sente a disagio perché la gente può pensare che c’entriamo qualcosa, mentre mio figlio è incensurato (ma sotto processo per minacce nei confronti del giornalista Paolo Borrometi, ndr)». Quando gli si chiede che idea si sia fatto dell’accaduto, Giuliano risponde: «Per me è stato qualcuno che aveva rancore, tanto sapeva che in ogni caso se la sarebbero presa con noi». Nonostante dopo l’uscita dal carcere il suo nome sia tornato al centro delle attenzioni degli inquirenti, Giuliano parla di sé come di qualcuno che non ha più nulla a che vedere con la criminalità organizzata. «La mafia a Pachino? Io lavoro nelle serre», conclude l’uomo. Il cui cognome indica un clan in passato legato sia alla mafia catanese che a quella siracusana


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