Il filo conduttore degli affari del clan Pillera-Puntina: «Coi distributori di benzina, pulivamo i soldi della droga»

«Queste società, tutte riconducibili al clan Pillera, erano strumenti per fare girare soldi in nero. I fondi che entravano in queste ditte provenivano dall’attività di usura». Sono state ritenute «precise, circostanziate e coerenti» le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Salvatore Messina, detto Turi manicomio, che hanno contribuito ad arrivare all’operazione Filo conduttore che ha portato a dieci misure cautelari per bancarotta fraudolenta, riciclaggio e autoriciclaggio, aggravati dal metodo mafioso e dal fine di agevolare la cosca mafiosa catanese dei Pillera-Puntina. «Io non comparivo formalmente in nessuna ditta, ma avevo potere decisionale, in quanto decidevo tutto io», aggiunge Messina.

Ex esponente dei Pillera-Puntina, all’interno del clan, Turi manicomio ha avuto in effetti un ruolo apicale. Almeno fino all’agosto del 2018 quando ha deciso di iniziare il percorso di collaborazione con la giustizia. È stato lui stesso a raccontare agli inquirenti di essere «entrato nella famiglia Pillera che avevo 21 anni (nel 1987, ndr), fuggendomene prima e sposando poi la figlia di Salvatore Pillera, Rosa». Il capomafia noto come Turi Cachiti le cui iniziali, come ha svelato il collaboratore Messina, sono anche la sigla (T.C. Impianti) di una delle ditte – specializzata nel settore della telefonia e, in particolare, nella posa della fibra ottica – a disposizione della cosca e con tante commesse ottenute dalla Sielte. La Spa che è tra i principali appaltatori di contratti dalle maggiori società di telecomunicazioni nazionali. Non solo, è anche uno dei gestori abilitati dall’agenzia per l’Italia digitale per la certificazione dell’identità digitale tramite lo Spid che consente di accedere a tutti i servizi online della pubblica amministrazione.

Quelli tra il clan Pillera e la Sielte (all’epoca ancora Itel Spa) sarebbero rapporti nati tra gli anni Ottanta e Novanta secondo «un modulo non infrequente di concordato – come si legge nelle 240 pagine di ordinanza firmate dalla giudice per le indagini preliminari Simona Ragazzi – tra grosse imprese e gruppi mafiosi, che trascende gli schemi della succubanza estorsiva per diventare un patto di reciproca convenienza». Stando a quanto emerso, la società avrebbe assunto fittiziamente tra i propri dipendenti componenti del clan mafioso a cui avrebbe effettivamente pagato uno stipendio, un extra fuori busta (di circa 500mila lire poi convertiti in euro) e anche un tributo periodico all’associazione. In cambio, la ditta avrebbe ricevuto protezione e la risoluzione di questioni economiche di vario tipo: dalla riscossione di crediti da debitori morosi anche fuori dai territori controllati (anche in Sardegna per 260mila euro), all’interessamento per il ritrovamento di auto rubate o per il recupero di oggetti di valore dopo un furto.

Ripercorrendo i racconti di Messina, si delineano le dinamiche di riciclaggio dei proventi illeciti nell’ambito della holding di imprese del clan Pillera dedite alla manutenzione di impianti telefonici. «Ogni società dava al clan intorno ai 5000 euro al mese, a seconda di quali erano gli introiti. Questi soldi erano sempre dati in contanti. La fuoriuscita di soldi dalle ditte – precisa ancora Messina – era giustificata con fatture emesse dai distributori di benzina, sempre riconducibili a noi».

Erogatori di carburanti che sarebbero stati trasformati in lavatrici. «Proprio grazie ai distributori di benzina riuscivamo a pulire anche i soldi che venivano dalla droga». Tutti racconti del collaboratore che sono stati ritenuti attendibili dagli inquirenti, nonostante «l’asserito astio verso la famiglia Pillera da cui sarebbe stato mosso fin dall’inizio della sua collaborazione». Proprio per questioni di famiglia, si potrebbe dire. In particolare perché, dopo la fine del suo matrimonio con Rosa Pillera, i suoi parenti si sarebbero rifiutati di aiutare la sua nuova compagna. Un atteggiamento che avrebbe spinto Turi manicomio a scrivere una lettera in cui, confidando di essersi sentito «tradito dal clan», avrebbe preannunciato la propria «vendetta attraverso le sue dichiarazioni accusatorie».


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