Per la rubrica culturale di Radio Zammù e MeridioNews Joele Anastasi parla della sua formazione, delle sue esperienze e della sua arte. Immacolata Concezione è lo spettacolo che sta portando in tournée. Tra le tappe, insieme a Napoli, Torino e Milano, ci saranno anche Noto e Catania. Guarda il video
Anastasi, il giovanissimo creatore di Vuccirìa Teatro «La sessualità? Il vero scandalo è fingerla un tabù»
Che Joele Anastasi sia nato e cresciuto a Catania si capisce. Non forse dall’accento: gli anni di formazione alla scuola d’arte drammatica a Roma hanno cancellato ogni traccia di dialetto. C’è però in lui qualcosa del vulcano. Gli è rimasto in corpo un magma che continuamente lo sommuove. Dopo il diploma non ha perso tempo: due anni di Accademia di musical a Catania e poi via, è volato a Roma; tre anni di Link academy a Roma e poi via, a fondare con Enrico Sortino la compagnia Vuccirìa Teatro. Grande successo col primo spettacolo scritto e diretto da sé (Io, mai niente con nessuno avevo fatto) e poi via, in tournée di nuovo in Sicilia, per tutta l’Italia e per il mondo. A soli 23 anni. Tra quell’esplosivo debutto nel 2013 e oggi sono state tante le creazioni del magmatico Joele Anastasi: Yesus Christo Vogue, Battuage, Nel nome di questo sacro corpo. Giovane astro del teatro sperimentale, esplosivo di idee, Joele Anastasi incontra l’Elzeviro. E dal magma sono sgorgate ben due copiose interviste.
Parliamo di Immacolata Concezione, il nuovo spettacolo che porterai al Centro Zō di Catania a gennaio.
«Siamo nella Sicilia degli anni ’40, durante la guerra. Concetta è figlia di un pastore. L’uomo, caduto in disgrazia a causa di un’epidemia che ha sterminato il suo gregge, baratta la figlia per una capra gravida, e Concetta finisce tra le mani di una tenutaria di bordello. Ingenua, ignorante, quasi dissociata, Concetta diventa presto la prostituta più ambita del paese, nonostante in realtà non si conceda mai a nessuno. Concetta è portatrice di una forza simile e opposta a quella che sta portando l’Europa sull’orlo della distruzione, nei lager: simile perché entrambe danno voce ai desideri dell’inconscio, opposta perché la forza che anima la guerra è una pulsione di morte, mentre quella di Concetta è una pulsione d’amore, una tendenza verso il sacro».
Quello del sacro è un tema costante nella tua produzione. Qual è il tuo rapporto con la religione?
«Eh, travagliato. Non sono mai stato religioso. Per molto tempo mi sono semplicemente disinteressato alla questione, ma col tempo ho avuto l’esigenza di confrontarmi con il cristianesimo, col risultato che adesso sono più consapevole del mio non essere religioso. Però, ecco, non sono né un filosofo né uno storico, non ho nessuna pretesa di insegnare una lezione. Posso solo trasporre in simboli ciò che non si vede».
Quali sono i tuoi modelli?
«Direi nessuno, ma anche tutti. Per questo non amo parlare di modelli o anti-modelli, perché l’artista ruba un po’ da tutti. Ma veramente».
Tu da chi rubi? Letteratura, cinema?
«Sì, sì, proprio da tutto, anche dalle cose brutte. Nei periodi legati alla genesi di una nuova opera ho bisogno di perdermi nella lettura di romanzi, di testi filosofici… Ma anche le arti visive sono molto importanti. Poi ho la fortuna di poter seguire il teatro internazionale. Ad esempio mi attira parecchio l’arte performativa, in cui è assente il filtro del personaggio. Sebbene lo spettatore abbia bisogno di una storia per identificarsi, ci sono cose che non si possono più raccontare attraverso l’artificio della storia. La realtà e le domande su di essa sono oggi molto più frammentate. Un’altra peculiarità della performance è quella di partire dal vissuto personale, di traslare in simboli l’autobiografico. E io credo nella forte esposizione personale dell’artista».
Sei stato sia attore che autore. Quali sono i panni in cui ti trovi meglio?
«Per molto tempo in realtà me ne sono fatto un problema, credevo di non poter fare a lungo entrambe le cose. Come attore è bello perdersi nei mondi altrui, quando riesco a incontrare l’immaginario di un drammaturgo che mi soddisfi pienamente. Però quando sono regista di me stesso posso mettere in scena così come l’ho pensato qualcosa che è difficile comunicare a parole, scrivere su una sceneggiatura. Alla fine i due aspetti del mestiere si sono compenetrati, e ho smesso di farmene un problema. Ho capito che non devo per forza scegliere».
La sessualità, nei tuoi spettacoli, è uno strumento espressivo tra gli altri o un’arma per smuovere le coscienze?
«Sicuramente è un terreno forte, rivela molte cose legate alla costruzione della propria identità. Non direi che è un’arma, però mi annoia pensarla come un tabù. Ormai viviamo in un’epoca pornografica, in cui la sessualità non è per niente scandalosa. Il vero scandalo è fingerla un tabù».
A proposito di identità. Stando sul palco devi essertene fatto un’idea: siamo noi stessi a costruirla, o sono gli altri che la costruiscono per noi?
«Siamo un po’ l’incontro di entrambe queste cose. Siamo il ruolo che ci scegliamo nella società, quello che di noi vorremmo imprimere sugli altri, ma anche l’effetto che sugli altri si imprime malgrado la nostra volontà».