Ambulanze sguarnite, poche mascherine e reagenti importati La sanità ai tempi del Covid: «Siamo minacciati al silenzio»

«Ore 7.30, monto per il mattino e sono costretto a fermare l’ambulanza per mancanza di tutto, niente di niente. La centrale che mi chiama e non posso andare, nemmeno le mascherino ci sono, schifo. Siamo pure minacciati al silenzio». Così un giovane infermiere, che chiede di restare anonimo, perché teme che quell’accenno di denuncia che restituisce una radiografia piuttosto critica del mondo sanitario in questo momento possa ripercuotersi proprio sul suo lavoro. «Qui è il panico isterico, nessun presidio adeguato, l’ospedale è allo sbando», si sfoga anche un medico che lavora in un nosocomio palermitano, tra quelli però non destinati a ricevere pazienti che hanno contratto il virus. A microfoni spenti non sono pochi quelli che raccontano di una situazione caotica e ingestibile, mentre molti altri pubblicamente descrivono una situazione sotto controllo.

D’altronde, ad ammettere ad esempio che tra il personale sanitario manchino le mascherine è anche lo stesso professore Vincenzo Provenzano, direttore medico del Covid-Hospital creato a Partinico: «Negli ospedali i DPI, le maschere FFP2 e FFP3, scarseggiano o addirittura mancano per difficoltà di approvvigionamento, ma vedo tanti cittadini per strada che indossano questi presidi mentre vanno a fare la spesa o a passeggio col cane. Vorrei chiarire che questi presidi servono per esclusivo uso del personale medico e infermieristico a contatto con pazienti infetti o potenzialmente infetti – spiega il professore Provenzano -. Non solo… queste maschere “tecniche” hanno dei filtri che non fanno entrare i virus ma li fanno uscire. Quindi se uno dei tantissimi individui positivi al Covid ma asintomatici indossa queste mascherine protegge inutilmente se stesso ma può infettare lo sfortunato vicino di fila per strada o nel pullman».

«La popolazione generale – torna a dire – deve usare solo mascherine chirurgiche che sono una barriera meno efficace ma fondamentale al di fuori degli ospedali. Non sottraete maschere FFP2 e 3 agli ospedali, e soprattutto non rischiate involontariamente di propagare il contagio. Poi ricordate che tutte le mascherine sono monouso e dopo averle buttate occorre lavare bene le mani. In caso di difficoltà di reperimento di mascherine chirurgiche si possono usare (comprate o fatte in casa) in stoffa a doppio o triplo strato che possono essere lavate ad alte temperature e riutilizzate. Un uso corretto delle maschere non solo è necessario ma è anche etico nell’interesse di tutti. Soprattutto state a casa voi che potete». Ma è davvero così drammatica la situazione? Forse no. Almeno proprio nella struttura di Partinico attrezzata per accogliere i pazienti che hanno contratto il virus. «Il Covid-Hospital di Partinico è la struttura più grande della Sicilia occidentale, abbiamo una capienza di oltre cento posti letti, siamo partiti da oltre 20 giorni e non abbiamo mai avuto problemi di approvvigionamento dei dispositivi finora», spiega il professore Provenzano.

«L’umore è quello che è, stiamo affrontando un nemico invisibile ad alta contagiosità, abbiamo due ammalati in Rianimazione per ora, ben otto persone sono guarite, mentre i deceduti sono stati sette ma è vero che erano molto anziani, residenti dell’Rsa di Villafrati, con particolari condizioni pregresse. La paura ha costituito il secondo nemico accanto al virus, lì le persone sono estremamente sole perché non possono ricevere i famigliari, e all’inizio anche il medico si avvicinava a loro con una sorta di paura del contagio, magari somministrando le terapie con frettolosità. Ma dopo venti giorni questa cosa è stata ampiamente superata». Tanto che si è creato non solo un clima speciale e disteso all’interno della struttura, ma un vero e proprio rapporto tra pazienti e dottori. «Abbiamo molti medici volontari – torna a dire il professore Provenzano -, un paziente si è voluto fare la foto con noi, il rapporto medico-paziente sta diventando davvero molto bello, i pazienti sanno che rischiamo e sono molto riconoscenti, abbiamo assistito a scene molto belle che non vedevamo da tempo dentro un ospedale. Sentirsi accuditi e vedere che qualcuno si occupa così di te implica quello sforzo d’animo che aiuta davvero, anche ad affrontare il virus».

E come funziona, poi, in quelle strutture che non sono state disposte per accettare pazienti positivi al Covid? «Se dovesse arrivare qualche caso, non credo che ci sia un percorso sicuro per l’eventuale gestione – racconta ad esempio un medico che lavora al Buccheri La Ferla -. Abbiamo a stento una sola mascherina da utilizzare solo in casi certi e questa non è per niente una situazione di sicurezza per noi e per gli utenti. Speriamo solo di non incontrarne perché sarebbe davvero problematico. Abbiamo un pre-triage al pronto soccorso generale con possibilità di effettuare i tamponi. Il problema si pone se viene qualche pazzo sciagurato che , pur sapendo di dover andare altrove, si reca ugualmente da noi. Quello che manca sono i controlli esterni che permettono ancora a troppa gente di circolare indisturbata. Noi facciamo l’impossibile per la tutela nostra ed altrui».

Come ribadisce anche il segretario generale di Fsi Usae Sicilia Calogero Coniglio, che spiega come i giorni peggiori siano stati soprattutto i primissimi in tutta l’Isola: «Qui aumentavano i casi e al nord i morti. C’era la sensazione che da un momento all’altro potessero arrivare queste tragedie anche qui. In reparto – racconta – abbiamo la possibilità di avere una mascherina ad personam, abbiamo messo la nostra attrezzatura, mascherine FFP3 e mascherine chirurgiche e camici, sotto chiave, quando siamo cinque di turno nominiamo un responsabile che a inizio turno consegna una mascherina ciascuno e ci fa firmare, al cambio turno consegna all’altro infermiere responsabile quanto materiale c’è in giacenza e quanto è stato consegnato e la chiave passa in consegna, perché abbiamo avuto dei furti. Siamo stati parsimoniosi, cerchiamo di farci bastare almeno le mascherine chirurgiche e prendiamo tutte le precauzioni necessarie. Quando l’anamnesi ritiene che ci siano i presupposti per fare il tampone, secondo anche la storia clinica del paziente e quello che ci riferisce il pronto soccorso, e quando ci sono i sintomi, in quel momento parte la richiesta per una tac al torace e da quel momento poi il paziente rientra e deve fare il tampone,se ne occupa un infermiere che si mette una tuta Sars che abbiamo sottochiave, e poi il tampone viene spedito».

I tempi, però, per ottenere il risultato sono spesso lunghi, «siamo arrivati anche alle 48 ore – torna a dire Calogero Coniglio -, è vergognoso, pensate anche all’ansia dei colleghi che come il paziente aspettano quell’esito con l’ansia di rischiare di contagiarsi tra loro o contagiare altri se qualcuno dovesse risultare positivo mentre nel frattempo loro continuano a lavorare». Intanto, è giunta a destinazione la commessa di approvvigionamento di DPI che il Presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci si è impegnato a far arrivare, «è arrivata la prima trance di 40 tonnellate, che già sono in distribuzione nelle 17 aziende. Con i nostri segretari territoriali nelle province abbiamo accertato che a “macchia di leopardo” alcune aziende hanno ricevuto parte del materiale sanitario di protezione. Inoltre – aggiunge – a breve si riunirà il Comitato tecnico scientifico e si esprimerà se si dovranno utilizzare i test rapidi anziché i tamponi». Il test rapido può essere eseguito solo su persone asintomatiche e che non sono in quarantena. Il tampone faringeo invece serve per diagnosticare la presenza del virus nell’organismo e quindi l’infezione in corso.

«I test servono per capire se una persona è già entrata in contatto con il virus – torna a dire Calogero Coniglio -. Anche se va sottolineato che molti test sono ancora in fase di sperimentazione e validazione. Il test dimostra la presenza nel paziente di alcuni anticorpi che si formano dopo che una persona è stata contagiata. Se gli anticorpi sono presenti significa che il sistema immunitario è già entrato in contatto con il virus, anche se non possiamo sapere da quando. Però i test non sostituiscono il tampone, che dimostra la presenza o meno di materiale genetico virale, dando quindi la conferma appunto dell’infezione in corso. Servono per capire se la persona è entrata in contatto con il virus e ha sviluppato le difese immunitarie in grado di proteggerla in caso di nuovo contatto». Entrambi, sia il test che il tampone, sono strumenti essenziali. Con qualche differenza, però. «Il test costa meno e quindi se ne possono fare molti. Non sappiamo il numero preciso ma le forniture saranno richieste per non farli mancare. E possono essere richiesti sempre, sperando che arrivano. Mentre, il problema dei reagenti sussiste purtroppo». Quelli cioè impiegati sul test del tampone. Problema che, però, non dipenderebbe da una questione di prezzo. «L’Italia non produce reagenti. Quindi li importiamo». Significa che di mezzo si mettono tempi, attese, burocrazia e dogane, che influiscono sulla loro disponibilità: «Solo questo. Non è un problema di costi né di personale, i test sono semplici da praticare». 

Ma anche fuori dagli ospedali la situazione, seppur sotto controllo, sembra a tratti lasciar trasparire qualche criticità. Come, ad esempio, sulle ambulanze. Secondo alcuni totalmente sguarnite, specie quelle che restano a disposizioni per tutte quelle chiamate e urgenze che non hanno a che fare con il Covid. Ma anche quelle che si sono schierate in prima linea per fronteggiare l’emergenza lanciano ora un grido d’allarme: «Il personale Seus 118 è in prima linea nel contrasto al Coronavirus, mettendo a rischio la propria salute e quella delle proprie famiglie, e ha bisogno di ogni tutela possibile: la società ha già fatto molto ma chiediamo più dispositivi di sicurezza, nuovi turni, tamponi periodici, zone franche per sanificare le divise e strutture ad hoc per ospitare chi è maggiormente esposto ai pericoli», scrive in una nota Giuseppe Badagliacca del Csa-Cisal destinata ai vertici dell’azienda e all’assessore regionale alla Salute Razza.

«Per chi lavora sulle ambulanze non esistono né ferie, né smart working – spiega Badagliacca – e il personale sta mostrando un senso del dovere encomiabile, ma i lavoratori hanno paura di poter essere contagiati o, peggio, di poter contagiare i propri cari. Il Csa-Cisal chiede pertanto l’adozione di alcune misure straordinarie: bisogna rivedere i turni, visto che i tempi medi di intervento sono passati da un’ora a 3-4 ore e che per sanificare un’ambulanza spesso ci vogliono anche tre ore; sostenere i dipendenti con un supporto psicologico per affrontare al meglio lo stress; garantire tamponi periodici con risultati in tempi brevi e stanze dedicate alla svestizione e sanificazione delle divise, oltre a strutture in cui ospitare i dipendenti che ne facessero richiesta per consentire il loro isolamento dalle famiglie. Piccoli ma fondamentali accorgimenti per aiutare questi lavoratori a operare con serenità».

Silvia Buffa

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