Alla ricerca del cambio perduto – Sesta parte: l’addio alla lira e l’arrivo dell’euro

Dopo l’attacco speculativo alle valute di alcuni paesi europei del 1992 (tra i quali Inghilterra e Spagna), anche l’Italia fu costretta ad uscire dalla  banda ristretta e a svalutare la Lira. Abbiamo visto come la flessibilità del cambio non causò gravi problemi all’economia italiana, nonostante le politiche fiscali restrittive e le politiche del lavoro tendenti ad indebolire i lavoratori. Nel 1996 però l’Italia rientra nel meccanismo dei cambi fissi e rivaluta la propria moneta. In questo articolo affronteremo la situazione italiana ed europea negli ultimi anni del secolo scorso; concluderemo il nostro viaggio – che ci porterà a ridosso della presentazione del libro di Alberto Bagnai il 22 Aprile al laboratorio Zeta – nelle prossime due settimane con l’analisi del periodo di entrata in vigore dell’Euro.

Il collasso del Sistema Monetario Europeo determinò la fine di un periodo storico lungo più di un decennio (1979-1992) e pose fine ad un sistema che, come abbiamo visto in questa rubrica, non ebbe alcun effetto sull’integrazione macroeconomica dell’Unione Europea. Ma il sogno dell’integrazione non solo non venne  abbandonato ma anzi i paesi “europeisti” scelsero di adottare politiche fiscali e monetarie simili al fine di realizzare un processo di convergenza delle economie nazionali.

Il percorso che avrebbe segnato il destino dell’Unione Europea verso l’unificazione monetaria iniziò con il trattato di Maastricht, una piccola cittadina olandese simbolicamente situata al confine tra Olanda, Belgio e Germania. Il trattato è articolato in tre fasi.

La prima fase – attuata durante l’inizio degli anni ’90 – fu caratterizzata dalla deregolamentazione dei mercati dei capitali. Furono infatti aboliti i residui controlli sui movimenti di capitali che ancora impedivano la completa integrazione dei mercati finanziari.

La seconda fase diede luogo alla creazione dell’Istituto Monetario Europeo, antesignano dell’attuale Banca Centrale Europea. L’IME era nato col compito di controllare l’applicazione delle politiche economiche finalizzate alla convergenza macroeconomica a livello dell’Unione Monetaria Europea.

La terza fase riguardò l’entrata in vigore dell’U.M.E. avvenuta nel 1999 con l’adozione dell’Euro.

I criteri di convergenza che avrebbero segnato le politiche dei singoli paesi riguardavano:

  1. la stabilità valutaria: cambi rigidi con ritorno ad un S.M.E. per almeno due anni;
  2. la stabilità dei prezzi: il tasso di inflazione di ogni singolo paese non doveva superare dell’1,5% il tasso medio dei tre paesi con inflazione più bassa (ricordiamo che uno degli obbiettivi della B.C.E. è quello dell’inflazione al 2% nella zona Euro);
  3. la stabilità dei tassi d’interesse: non dovevano superare di otre due punti il tasso medio dei tre paesi con minore inflazione;
  4. l’assenza di squilibri nella finanza pubblica: rapporto deficit/PIL non superiore al 3% e rapporto debito/PIL non superiore al 60%.

Tra i suddetti criteri il rapporto debito/PIL non fu mai rispettato dal nostro paese. Nonostante ciò l’Italia venne ammessa nell’esclusivo club dell’Euro con il beneplacito di Helmut Kohl che in quel periodo chiuse un occhio sui conti italiani. Del resto i tedeschi chiuderanno un occhio anche successivamente, in occasione della crisi di solvibilità della Grecia.

Così il 1° gennaio 1999 entrò in vigore l’Euro, che sostituì il precedente ECU e che venne utilizzato, all’inizio, come unità di conto e moneta bancaria. Dovremo aspettare il 1° gennaio 2002 per vedere le nuove monete in circolazione e utilizzarle per gli scambi commerciali anche interni.

Le condizioni imposte dal trattato di Maastricht per raggiungere la convergenza sui criteri sopra descritti furono pesanti per l’economia italiana nel suo complesso, e soprattutto per le classi lavoratrici. Le politiche fiscali restrittive e l’abbassamento delle tutele nel mercato del lavoro degli anni ’90 posero una pietra tombale sul “trentennio glorioso” e sulle politiche di Welfare. I salari italiani ebbero un ulteriore picco verso il basso e nel 1999 si assistette al minimo storico della quota salari degli ultimi 40 anni.

In quegli anni si assistette ad un dibattito molto acceso anche in ambito accademico sull’opportunità di applicare quei criteri che in realtà non avevano alcun fondamento macroeconomico e non erano stati mai trattati nella letteratura economica. La giustificazione principale che sottendeva alle scelte monetariste e liberiste di quel periodo era quella che i paesi più deboli e con una gestione “allegra” dei conti pubblici, grazie ai vincoli europei sarebbero stati costretti a seguire i più virtuosi paesi amici.

In realtà, leggendo i dati macroeconomici di quel periodo, la Germania gestì tutto il processo imponendo dei criteri che più si avvicinavano ai propri fondamentali. A meno di non voler considerare del tutto casuali i grafici 1 (deficit/surplus in % del PIL) e 2 (debito pubblico in % del PIL).

 Fig. 1 – Parametro deficit/surplus pubblico in percentuale del prodotto interno lordo. Germania e Italia, serie 1991-2011

Fonte: Banca dati della Banca Centrale Europea

Fig. 2 – Parametro debito pubblico in percentuale del prodotto interno lordo. Germania e Italia, serie 1991-2011

Fonte: Banca dati del Fondo Monetario Internazionale

Come noterete nella figura 2, il parametro del debito pubblico al 60% del PIL (ma anche l’inflazione e il deficit pubblico) calzava a pennello per i fondamentali economici tedeschi: infatti rappresenta un obiettivo che, durante l’ultimo decennio del secolo scorso, il paese teutonico ha agevolmente rispettato. Noterete anche che, a partire dal 2002, la Germania ha cominciato a sforare il tetto del 60%, anche perché il paese ha sostenuto con l’aumento della spesa pubblica le riforme del lavoro Hartz volute dal governo Schröder.

Ancora una volta l’Italia accettò le condizioni provenienti dall’estero, come successe per il serpente monetario e per il Sistema Monetario Europeo, ma a differenza di quando c’era un forte Partito comunista, stavolta in totale assenza di forze politiche – e sociali – critiche. Così entrarono in vigore vincoli macroeconomici che nulla avevano a che fare con la storia economica e sociale del nostro paese.

La struttura dell’unione monetaria quindi non funzionava e ce ne accorgeremo, in particolare, discutendo degli effetti della crisi del 2008 in occasione degli ultimi due appuntamenti di questa rubrica.

Numerose erano le avvisaglie provenienti dalle più importanti facoltà di economia del mondo.

Già negli anni 60 Robert Mundell offriva gli spunti per la successiva critica all’Unione Monetaria Europea con la sua teoria delle Aree Valutarie Ottimali (AVO), in inglese Optimal Currency Area (OCA). Il premio nobel spiegava nel 1961, riprendendo precedenti lavori di James Meade, che affinché un’area che adotti una moneta comune possa funzionare, nel senso di sopportare meglio gli shock economici esterni evitando così gli squilibri regionali, devono verificarsi alcune condizioni come: mobilità dei fattori della produzione; maggiore flessibilità dei salari (questo criterio viene aggiunto da Milton Friedman successivamente); maggiore diversificazione produttiva; maggiore apertura al commercio estero; convergenza dei tassi d’inflazione; integrazione fiscale. Come sappiamo, il coordinamento e l’integrazione delle politiche economiche non rappresentano criteri seguiti dai paesi dell’U.M.E. Ed infatti la convergenza dei tassi d’inflazione non è mai avvenuta, ciò provocando un fattore competitivo a vantaggio dei paesi con minore inflazione.

Così, senza i trasferimenti automatici fiscali si è creata una situazione nell’U.M.E. non cooperativa ma competitiva. In questo modo le differenze commerciali e, conseguentemente, finanziarie si accentuano portando il collasso dei paesi più deboli.

Fig. 3 – Andamento dell’inflazione in Germania e Italia, serie 1991-2011

Fonte: Banca dati del Fondo Monetario Internazionale

La figura 3 ci indica l’andamento delle variazioni dei prezzi dell’Italia rispetto alla prima economia dell’U.M.E. Le frecce in verde tra le due spezzate indicano i differenziali d’inflazione. Questa situazione determina, tra l’altro, due ordini di considerazioni. La prima è che un’unione monetaria senza un coordinamento di politica economica e integrazione fiscale manterrà gli squilibri commerciali (i persistenti differenziali d’inflazione). La seconda considerazione è che la politica della banca centrale, che si pone come obiettivo più importante la stabilità dei prezzi attraverso il controllo dell’offerta monetaria, risulta fallimentare (come evidenzia anche   il governatore della banca centrale francese) e porta a riflettere sulla dubbia validità di alcuni assunti ideologici legati alla teoria quantitativa della moneta e alla moneta esogena di estrazione monetarista.

Oltre a Mundell sono tanti gli economisti che hanno previsto le conseguenze della difettosa strutturazione della macchina Euro.

Leggiamo ad esempio cosa scrisse nel 1971 Nicholas Kaldor, noto economista post keynesiano, riguardo al progetto della moneta unica: “Un giorno le nazioni d’Europa saranno pronte ad unire le loro identità nazionali e a creare una nuova Unione Europea – gli Stati Uniti d’Europa. Se e quando lo faranno, ci sarà un Governo Europeo che assumerà tutte le funzioni che fanno capo al Governo Federale degli Stati Uniti d’America, o del Canada o dell’Australia. Questo implicherà la creazione di una “piena unione economica e monetaria”. Ma si commette un errore pericoloso nel credere che l’unione politica e monetaria possa precedere l’unione politica che opererà (come si legge nelle parole del rapporto Werner) “un agente di fermentazione per la creazione di una unione politica della quale nel lungo non sarà in ogni caso in grado di fare a meno”. Poiché se la creazione di una unione monetaria e il controllo della Comunità sui bilanci nazionali saranno tali da generare pressioni che conducono ad una rottura dell’intero sistema, è chiaro che lo sviluppo dell’unione politica sarà ostacolato e non promosso”. Continuando: “Gli eventi degli ultimi anni – in cui si evidenziava la necessità di una rivalutazione del marco tedesco e di una svalutazione del franco francese – hanno dimostrato l’insufficienza della Comunità stante l’attuale grado di integrazione economica. Il sistema presuppone piena convertibilità delle valute e cambi fissi tra gli stati membri, lasciando la politica monetaria e fiscale alla discrezione dei singoli stati. Sotto questo sistema, come gli eventi hanno dimostrato, alcuni paesi tenderanno ad acquisire crescenti (ed indesiderati) surplus commerciali nei confronti dei loro partner commerciali, mentre altri accumulano crescenti deficit. Ciò porta con sé due effetti indesiderati. Trasmette pressioni inflazionistiche da alcuni membri ad altri; e mette i paesi in surplus nelle condizioni di fornire finanziamenti in automatico ai paesi in deficit in scala crescente”. (1)

Per arrivare alle critiche più vicine a noi dovremmo citare i lavori di vari economisti che si sono occupati della questione dell’Euro: Paul Krugman, Dominick Salvatore, Martin Feldstein, Rudiger Dornbush(2) e in Europa Paul De Grauwe, e che i lettori di LinkSicilia già conoscono.

I suddetti economisti hanno sempre posto in evidenza i difetti di un’unione monetaria che non possedeva le caratteristiche di un’Area Valutaria Ottimale. Ovviamente le istituzioni europee conoscevano i limiti che l’Euro avrebbe incontrato nell’applicazione della teoria di Mundell e vennero in soccorso alcuni studiosi come Lars Jonung che contestava l’utilizzo di una teoria vecchia come quella delle A.V.O., proponendo la nuova teoria delle A.V.O. endogene. La teoria dell’A.V.O. endogena dice: “anche se una zona non è ottimale dal punto di vista valutario (perché (1) non c’è sufficiente mobilità dei fattori; (2) il sistema produttivo dei paesi membri non è abbastanza diversificato; (3) la flessibilità dei prezzi e dei salari è ostacolata; (4) i tassi di inflazione e gli altri fondamentali non sono allineati, ecc. ecc.), (…) la nuova unione monetaria creerà da sé le condizioni della propria ottimalità. (…) In termini aulici, le condizioni di ottimalità di un’area valutaria sono endogene, cioè prodotte dal sistema.”(4)

L’attacco alla teoria dell’A.V.O. partiva però dall’assunto errato secondo il quale i paesi aderenti avrebbero perso il controllo sulla politica monetaria. In realtà la sovranità sulla politica monetaria era stata perduta con l’adesione ai sistemi monetari dei cambi rigidi che, accompagnati dalla perfetta mobilità dei capitali, non rendevano possibile fissare il proprio tasso d’interesse “a un livello diverso da quello prevalente nei mercati internazionali”(4)

Come abbiamo visto nell’articolo precedente, il tasso d’interesse italiano era fissato in linea con quello tedesco. La spiegazione è semplice: un tasso d’interesse diverso, in una situazione di cambi rigidi e perfetta movimentazione dei capitali, avrebbe comportato una fuga di capitali (in caso di tasso inferiore) e quindi un innalzamento del costo del denaro. Un tasso superiore a quello di riferimento, invece, avrebbe comportato un eccesso di capitali e quindi un abbassamento del costo del denaro, per la legge della domanda e dell’offerta.

Le convinzioni di Jonung derivavano anche da uno studio del 1999 prodotto da Andrew Rose(5) il qualeaffermava che l’Euro avrebbe creato da solo le condizioni per la propria sostenibilità grazie all’aumento del commercio tra i paesi aderenti. Il vantaggio commerciale fu fissato nell’ordine di grandezza del 200%. Pare che lo studio in questione però non si riferisse al guadagno dei paesi che decidevano di entrare in un’unione monetaria, ma ai costi di uscita. Così Rose fu costretto a rivedere le proprie previsioni al ribasso, proponendo il vantaggio non più al 200%, ma al 20% (6). 

Insomma, il dibattito tra sostenitori e contrari fu molto acceso e ricco di interventi provenienti dal mondo accademico internazionale.

Sappiamo che nella realtà l’Euro ha creato problemi non indifferenti soprattutto in situazioni di squilibri asimmetrici tra paesi della stessa area valutaria ed in particolare in occasione degli shock esterni, come le ultime due crisi provenienti dagli Stati Uniti d’America.

Approfondiremo gli effetti negativi sulle economie del sud Europa nei prossimi due appuntamenti. (6. Continua. Leggi le puntate precedenti:  IntroduzionePrima parteSeconda parteTerza parteQuarta parte; Quinta parte)


Note:

1.Brano tratto dall’articolo su Keynes blog: http://keynesblog.com/2012/10/08/i-difetti-delleuro-spiegati-30-anni-prima-che-nascesse-dalleconomista-keynesiano-nicholas-kaldor/;

2.Per approfondimenti sulle critiche dell’Euro da parte degli economisti americani si rimanda all’articolo di Alberto Bagnai “Euro una catastrofe annunciata” in http://goofynomics.blogspot.it/2011/12/euro-una-catastrofe-annunciata.html

3.Paul De Grauwe, Economia dell’unione monetaria, Bologna, Il Mulino, 2004. Edizione originale: Oxford University Press, 1992. Oppure http://ideas.repec.org/p/ner/leuven/urnhdl123456789-101158.html

4.Passo tratto dall’articolo di Alberto Bagnai: http://goofynomics.blogspot.it/2011/12/savonarola-vs-paperoga-decrescita-e.html

5. One Money, One Market: Estimating the Effect of Common Currencies on Trade http://ideas.repec.org/p/hhs/iiessp/0678.html

6. le considerazioni sui lavori di Jonung e Rose sono tratte dall’articolo di Alberto Bagnai http://goofynomics.blogspot.it/2011/12/savonarola-vs-paperoga-decrescita-e.html

 

 


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