Alla ricerca del cambio perduto – Quinta parte: la svalutazione del 1992

Secondo molti politici e commentatori della stampa italiana, un’uscita dell’Italia dall’Euro provocherebbe una catastrofe di dimensioni uguali o maggiori rispetto alla crisi valutaria che attraversò il nostro paese durante il 1992.

Da questi commentatori la crisi del 1992 viene considerata come l’esempio del fallimento e dell’incapacità dei nostri politici nell’attuare politiche economiche simili ai nostri vicini d’oltralpe. La svalutazione che ne seguì viene ritenuta ancora oggi come un atto vile e pericoloso per il benessere del paese.

L’analisi dei dati di quel periodo ci offre una visione diversa della realtà, meno grave rispetto a quella che viene delineata dai media nostrani quando hanno affrontato i problemi dell’inflazione, della svalutazione, del debito pubblico, della crescita della produzione.

Vediamo cosa accadde in quegli anni nel nostro paese.

Dal 1987 fino al 1992 i cambi delle monete europee rimasero fissi. La banda di oscillazione rispetto alla parità era rigida e fissata al 2,25%. All’Italia venne concessa un’oscillazione del 6% fino al 31 dicembre 1989. Da quella data, fino a settembre 1992, l’Italia fu costretta ad adottare la banda ristretta: il famoso SME “credibile”.

Siamo nel periodo decisivo per il processo d’integrazione monetaria ed europea dei paesi della C.E.E. Il 1991 è l’anno degli accordi di Maastricht, che oltre a prevedere i famosi parametri che dovranno rispettare i paesi aderenti, contemplava una maggior deregolamentazione nella circolazione dei capitali. I tassi d’interesse in Europa in quel periodo erano molto alti, e la politica monetaria era trainata dalla Germania, impegnata a sostenere l’unificazione dopo la caduta del muro di Berlino. Questa scelta influenzò notevolmente la politica degli altri paesi; in particolare l’Italia fu obbligata attraverso la sua banca centrale a mantenere alti tassi d’interesse per evitare la fuga dei capitali e per difendere la parità di cambio nel S.M.E.

La scelta dei cambi rigidi di quegli anni non migliorò la situazione macroeconomica del paese e dimostrò che il vincolo valutario non può aiutare i paesi strutturalmente più deboli, ma li rende più fragili soprattutto nel sopportare gli shock esterni.

Nonostante la rigidità dei cambi, dal 1987 al 1992 assistiamo in Italia ad un aumento dell’inflazione dal 4,7% al 6,2%, con il prezzo del petrolio in calo. La competitività italiana diminuì a causa di più alti differenziali d’inflazione con i paesi più forti (l’economia tedesca contemporaneamente sosteneva un’inflazione del 2%). A causa del vincolo valutario l’indebitamento estero aumentò e con la recessione degli U.S.A. del 1991, accompagnata dall’attacco speculativo alla valuta nostrana, l’Italia fu costretta ad uscire dallo S.M.E. e svalutare la Lira.

In particolare successe che la Banca d’Italia, per mantenere la parità valutaria a ridosso del famoso settembre nero, fu costretta a prosciugare le proprie riserve in valuta estera per acquistare le lire vendute dagli speculatori, quantunque i tassi d’interesse fossero alti ma non sufficientemente tali da evitare il deflusso. Quando le riserve in valuta estera furono azzerate non restò che uscire dalla banda ristretta e svalutare.

La Lira perse circa il 50% del suo valore rispetto al Marco tedesco negli anni tra il 1992 e il 1995, ma le conseguenze sull’economia italiana non furono così disastrose come ci vengono oggi rappresentate.

 

Fig. 1 – andamento del cambio Lira-Marco 1991-1996

Fonte: http://www.rischiocalcolato.it/2012/09/analisi-della-svalutazione-del-1992-1995.html/lira-marco-2

Intanto non è vera la teoria secondo la quale le svalutazioni successive al 1992 gettarono il paese nell’iperinflazione, anzi, tra il 1992 e 1993 l’inflazione diminuì di circa mezzo punto percentuale e l’inflazione media annua nel triennio dopo la crisi fu del 4,6%. L’inflazione cumulata rispetto alla Germania nel triennio in esame fu del 4,9% ben inferiore rispetto al periodo precedente dei cambi fissi (5,9% nel periodo 1990-1992).

Fig 2 – Inflazione in Italia e Germania, serie 1987-2001

Fonte: Data base del Fondo Monetario Internazionale

 

La flessibilità del cambio successiva alla crisi valutaria influì positivamente sull’export italiano e riaggiustò il saldo delle partite correnti.

Fig. 3 – Saldo partite correnti in percentuale del PIL in Italia e Germania, serie 1987-2001

Fonte: Data base del Fondo Monetario Internazionale

Fig. 4 – Saldo partite correnti in milioni di Dollari in Italia, serie 1987-2001

Fonte: Data base del Fondo Monetario Internazionale

Risulta chiaro dalla lettura dei grafici 3 e 4 di cui sopra, che il saldo delle partite correnti, nel periodo in cui l’Italia lasciò fluttuare il cambio, tornò al segno positivo e crebbe fino al 1996, anno di ritorno al sistema dei cambi rigidi.

Anche la crescita della produzione trasse giovamento dal periodo dei cambi flessibili, come dimostrato dalla figura 5.

Fig. 5 – crescita del PIL in Italia, serie 1987-2001 

Fonte: Data base del Fondo Monetario Internazionale

Il debito pubblico italiano crebbe leggermente fino al 1994, per poi decrescere successivamente (figura 6), anche se occorre inserire il trend in un quadro più ampio in cui i governi degli anni ‘90, a partire da quello presieduto da Amato, attuarono politiche fiscali austere al fine di rispettare i parametri di Maastricht.

Fig. 6 – Debito pubblico in rapporto al PIL in Italia, serie 1988-2001

Fonte: Data base del Fondo Monetario Internazionale

In sintesi, le svalutazioni successive alla crisi del 1992 non provocarono il disastro economico che oggi viene prefigurato quando si parla di ritorno alla flessibilità dei cambi. Perfino il prof. Mario Monti dichiarò, nell’anno di uscita dal sistema monetario, che la svalutazione ci ha fatto bene.

Certo che le manovre fiscali successive al 1992 (ricordiamo la manovra Amato dello stesso anno di 93 mila miliardi di Lire) e l’attacco alla classe lavoratrice (sempre Amato firmò l’accordo di luglio 1992 col quale venne abolita la scala mobile), accentuarono il divario interclassista e causarono un ulteriore calo vertiginoso dei salari italiani, come dimostrato dalla figura 2 del precedente articolo di questo ciclo.

Nei prossimi appuntamenti vedremo come le manovre di politica economica di fine anni 90 chieste dai padri del “più Europa”, combinate con il ritorno ai cambi rigidi, peggiorarono ulteriormente la situazione economica e delle tutele sociali delle classi più svantaggiate e aumentarono il divario redistributivo nel nostro paese. Divario che peggiorerà con l’entrata in vigore della moneta unica europea e con le politiche di austerità imposte dalle istituzioni europee degli anni più vicini a noi.

(5. continua. Leggi le puntate precedentiIntroduzionePrima parteSeconda parteTerza parteQuarta parte)

 

 


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