Bronte e la raccolta del pistacchio Storia e caratteristiche dell’oro verde etneo

In questi giorni la campagna di Bronte e di Adrano è in pieno fermento per la raccolta dell’oro verde: il pistacchio. Si parla spesso di questo strano frutto che conosciamo per la pubblicità della sagra che lo ritrae dentro un porta gioielli. Ma cos’ha di tanto particolare? Perché è così pregiato? La particolarità consiste nel fatto che gli arabi, sbarcati in Sicilia – più precisamente a Marsala (letteralmente porto d’Alì) – nell’827 e divenuti padroni dell’intera isola attorno al 902, in quegli anni ne iniziarono la coltivazione «inestando li salvatichi che co’ la coltivazione diventano domestichi».

Di questi ultimi, ancor oggi, nella parlata dialettale conserviamo i termini frastuca e frastucara che stanno ad indicare rispettivamente il frutto e la pianta. Termini corrotti derivanti dall’arabo fristach e frastuch. Naturalmente trattasi di traslitterazione dal momento che il suono della “p” mancando in lingua araba viene reso con la “f” o la “b”. Nel dialetto brontese dei nostri nonni (mio nonno era di Bronte) il termine frastucata indicava un dolce a base di pistacchio e frastuchino il colore verde pistacchio.

Furono gli arabi, dunque, strappando la Sicilia ai bizantini, ad incrementare ed a indirizzarsi nella coltivazione del pistacchio che nell’Isola, particolarmente alle pendici dell’Etna, trovò l’habitat naturale per uno sviluppo rigoglioso e peculiare. Nelle sciare del territorio di Bronte si realizzò uno straordinario connubio tra la pianta ed il terreno lavico che, concimato continuamente dalle ceneri vulcaniche, favorì la produzione di un frutto che dal punto di vista del gusto e dell’aroma, supera come qualità la restante produzione mondiale. Qui, in un terreno sciaroso e impervio (i lochi, così sono chiamati ancora i pistacchieti), il contadino brontese ha bonificato e trasformato le colate laviche dell’Etna in un insolito Eden, realizzando il prodigio di una pianta nata dalla roccia per produrre piccoli, saporiti frutti della più pregiata qualità, di un bel colore verde smeraldo, ricercati ed usati in pasticceria e gastronomia per le loro elevate proprietà organolettiche. Solo grazie all’innesto con una pianta autoctona è stato possibile un miracolo così straordinario!

Oggi, del vasto territorio brontese (25mila ettari), sono coltivati a pistacchieti quasi quattro mila ettari di terreno lavico, con limitatissimo strato arabile e con pendenze scoscese ed accidentate, poco sfruttabile per altre colture specializzate. Vi assicuro che fare la raccolta è davvero pesante. Sono reduce da una lunga giornata passata nella sciara brontese, anche se in verità buona parte del pistacchio ricade nel territorio di Adrano.

Un’altra particolarità è che il frutto si raccoglie ogni due anni, proprio per conservare le caratteristiche, ed è anche per questo che la qualità è elevata. Nulla a che vedere con i pistacchi che vengono dalla Siria o i pistacchi turchi che mangiamo quotidianamente e che spesso, purtroppo, ci troviamo nei vari pesti che vendono con la scritta pistacchio di Bronte. Infatti è praticamente impossibile riuscire in laboratorio a capire se quel pesto è fatto con pistacchio di Bronte. Un’assurdità dei nostri tempi. Pensate, in passato gli arabi ci hanno regalato la pianta di pistacchio, oggi invece importiamo il pistacchio (e ne importiamo tantissime quantità) dai paesi arabi con il rischio di contaminazione da micotossine. Queste sono delle tossine che vengono rilasciate da un fungo, l‘aspergillus flavus, e sono cancerogene. Il fungo si forma in particolari condizioni di umidità e temperature, che nelle stive di una nave è possibile avere facilmente soprattutto perché si viaggia per settimane (lo stesso identico discorso vale per il grano…).

In più, qualche anno fa hanno alzato i limiti di legge perché gli enti competenti per la sicurezza alimentare dicono che non c’è stato aumento di cancerogenicità nei consumatori. Prima domanda: come hanno fatto a capirlo? Seconda domanda: se il limite era più basso (parliamo di meno della metà) era logico che non vi fosse aumento di casi, quindi che senso ha avuto aumentare di più del doppio il limite? Risposta: per fare entrare più pistacchio dai paesi extra UE. Oggi abbiamo certamente strumentazioni molto più sensibili e le aflatossine sono certamente cancerogene. Quindi, siamo proprio sicuri che questi fanno gli interessi dei consumatori?

Ma torniamo al nostro caro pistacchio (che è possibile trovare certamente di Bronte alla torrefazione che c’è vicino alla circumetnea in via Etnea, Torrefazione Schilirò). Dopo la raccolta che viene fatta a mano sulle pietre impervie della sciara dell’Etna

viene tolto il mallo esterno. Pensate che rappresenta circa il 70 per cento del peso del pistacchio, che ovviamente si deve trasportare sempre sulle pietre della sciara (una piacevole fatica) con questa macchina

quindi viene steso al sole per farlo asciugare con il guscio esterno duro

stando attenti alla pioggia per non rovinare tutto il raccolto. Una volta asciutto e quindi dopo l’ennesima perdita di peso, si sguscia e si mette sottovuoto per conservarlo per i due anni. Tutto questo ovviamente fa lievitare il prezzo (giustamente) tra i 35 e i 40 euro al chilo, per avere il nostro pistacchio sgusciato e sotto vuoto pronto per mangiarlo! Se ci facciamo due conti, per ottenere un chilo di pistacchio sgusciato ci vogliono circa due chili e mezzo di pistacchio con guscio, che costa sette euro al chilo. Arriviamo a 17 euro solo di spese vive. Poi bisogna aggiungere il costo per farlo sgusciare e metterlo sotto vuoto; il costo del personale; il costo della manutenzione della campagna. In più c’è un pizzico di guadagno che dopo tanta fatica (che corrisponde anche alla difesa e alla gestione del territorio) non guasta.

Questo è un esempio virtuoso di un oro verde che poco si conosce. Per questo, vi invito veramente ad andare a Bronte in questo periodo ad ammirare lo spettacolo che è la raccolta, e ad assaggiare ed osservare il pistacchio direttamente dall’albero. Ha un colore inconfondibile, una forma particolare e un sapore delicatissimo. Così, quando cercheranno di vendervi il pistacchio arabo (quello importato) saprete come riconoscerlo!

Leggi il post sul blog Impatto zero di Pulviscolo Discolo.


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Il nostro blogger green Pulviscolo Discolo spiega come si raccoglie il pregiato frutto nelle sciare alle pendici dell'Etna. Una procedura lenta e faticosa, che permette di ottenere un prodotto dalla qualità organolettiche straordinarie, che nasce dal connubio tra la pianta - portata in Sicilia dagli arabi - ed il terreno lavico. E che non ha «nulla a che vedere con quello che viene dalla Siria, importato con il rischio di contaminazione da micotossine»

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