Morto Calderone, il primo pentito etneo Prima di lui la mafia a Catania non esisteva

«Ancora nella seconda metà degli anni Settanta la polizia non sapeva che a Catania ci fosse la mafia». A far aprire gli occhi a magistrati, forze dell’ordine, giornalisti e opinione pubblica è stato lui, Antonino Calderone. Che di mafia se ne intendeva, per averne fatto parte ai vertici. Il primo importante collaboratore di giustizia etneo, nato a Catania nel 1935, è morto ieri in una località segreta oltreoceano, dove viveva dopo essersi pentito. Tra i primi in assoluto degli uomini di Cosa Nostra, ancora oggi l’unico di una certa consistenza per i magistrati alle pendici dell’Etna. Le sue memorie, raccolte dal sociologo Pino Arlacchi nel libro del 1992 Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita di un grande pentito Antonino Calderone, restano l’unico punto di riferimento per gli studiosi del fenomeno mafioso etneo.

La criminalità organizzata ad alti livelli, per Antonino Calderone, era una tradizione di famiglia. Come già il nonno e uno zio, lui e il fratello Giuseppe – detto Cannarozzu d’argento – diventano presto uomini d’onore. Quelli che per strada si salutano con i baci sulle guance. In seguito Giuseppe farà carriera, diventando il rappresentante della Commissione – una sorta di direttivo regionale di Cosa nostra – per la provincia di Catania. Fino al 1978, quando viene ucciso, e Antonino capisce che non sopravviverà al ricambio dei vertici di Cosa Nostra etnea. Così decide di scappare a Nizza, con la famiglia, dove apre una lavanderia. Viene arrestato nel 1986 dalla polizia francese e decide di collaborare con la giustizia. I suoi racconti, raccolti da Giovanni Falcone, sono indispensabili ai magistrati per capire la mappa, la gerarchia e i rituali dell’organizzazione criminale e fare luce su alcuni importanti eventi del passato. Dopo le parole di Calderone, persino Nitto Santapaola smette di essere considerato un semplice contrabbandiere di sigarette e, per quasi tutti, diventa un boss.

«Noi stavamo tranquilli e non c’erano omicidi. Nessuno in città pensava alla mafia. Pensavano tutti allo sviluppo: Catania era allora la città più laboriosa della Sicilia», racconta Calderone. Eppure, ricostruisce nelle sue memorie, Cosa nostra approda in territorio etneo già nel 1925. Pochi uomini, appena una decina, scelti dalle cosche palermitane, di ben altre dimensioni. Una scarsa potenza di fuoco che fa preferire agli esponenti mafiosi catanesi un basso profilo. Gli stessi fratelli Calderone, in principio, si guadagnano da vivere gestendo una stazione di servizio Agip a Catania. Per arrotondare, contrabbandano sigarette. Una vita di ristrettezze quella dei boss etnei, almeno fino agli anni Sessanta. I business illegali preferiti, racconta Calderone, sono la rivendita di merci rubate, le estorsioni a pochi grandi gruppi economici e il contrabbando di sigarette appunto. Niente sfruttamento della prostituzione, allora ritenuto inutile e disonorevole.

«Il nostro punto di riferimento erano i grandi imprenditori e cercavamo di sfruttare loro. Loro, d’altra parte, ci guadagnavano ad andare d’accordo con noi e tutto funzionava a dovere». Nelle sue memorie, il boss etneo ricorda gli stretti rapporti con i motori economici della città. Cosa nostra offriva loro non solo protezione, ma aiuti e contatti, e gli imprenditori ricambiavano con denaro e posti di lavoro o incarichi a ditte di altri esponenti. Un sistema che dura ancora oggi con successo. Al contrario delle estorsioni ai piccoli commercianti, una volta rifiutate da Cosa nostra e oggi una delle voci di bilancio più consistenti della Mafia spa.

«Era da stupidi rubare ai poveri. Si guadagnava poco e si diventava impopolari. Non si andava dai piccoli», spiegava Calderone. Una questione d’onore e di prudenza: inutile, per una mafia discreta come quella etnea, rischiare di essere denunciati per pochi spiccioli. Ma la paura di scoprirsi non ha frenato all’inizio degli anni Settanta quelli che Calderone definiva i «ragazzi terribili». Bande di quartiere di un migliaio di delinquenti comuni, che rischiano di rubare la scena ai nemmeno cinquanta uomini di Cosa nostra etnea. La decisione su come affrontare il fenomeno segna la fine del potere dei Calderone a Catania. Fautori di una linea morbida, a favore di un accordo, Antonino e Giuseppe perdono di fronte alla strategia dell’astro nascente di Benedetto Santapaola. Secondo il quale, sterminato un buon numero di elementi, queste bande si sarebbero placate o, nel migliore dei casi, sottomesse a Cosa Nostra. È così che Catania inaugura una stagione di numerosi e cruenti omicidi. Tra cui anche quello di Giuseppe Calderone che spinge Antonino alla fuga prima e al pentimento poi.

Alla fine delle sue memorie, l’ex boss guarda al futuro. Ai suoi figli e a quelli degli altri uomini di Cosa nostra. «Non fate come fanno Nitto Santapaola, i Corleonesi e tutti gli altri – si rivolge ai suoi ex sodali – Nitto ha tre figli maschi ancora giovani e li ha indirizzati tutti verso la strada della mafia. Oppure, se volete continuare la vostra vita, se proprio non siete capaci di uscire dalla pozzanghera in cui sguazzate, evitate perlomeno di farli sposare tra di loro, i vostri figli. Fategli conoscere persone diverse, normali, spingeteli verso la società degli uomini evoluti. Ascoltate ciò che vi sto dicendo. Fermatevi un momento a pensare. Cercate di salvarvi. Altrimenti non ci sarà misericordia per voi. Dio non vi perdonerà mai per i lutti e le sventure che portate. Siete gli uomini del disonore».


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