Un manuale d'istruzioni non aggiornato è costato a Rosa (nome di fantasia) il supporto dell'Istituto nazionale di previdenza sociale per i due mesi antecedenti il parto. Quelli in cui il suo congedo obbligatorio per maternità avrebbe dovuto pagarli lo Stato
La lotta di una neo-mamma contro la burocrazia Inps «Diritto negato per un errore nelle istruzioni sul sito»
Potrebbe dover restituire alla sua azienda due mesi di stipendio, a quasi un anno di distanza dalla nascita del suo secondogenito. Rosa (nome di fantasia) ha 37 anni e due figli nati a due anni l’uno dall’altro. È una mamma con due bimbi piccoli e lavora come impiegata in un’azienda della provincia di Catania, sopravvissuta con qualche acciacco alla crisi economica degli ultimi anni. Quando è rimasta incinta del secondo figlio – esattamente com’era accaduto con il primo – ha fatto tutto ciò che c’era da fare dal punto di vista burocratico. Così anche al settimo mese, quando è andata in maternità obbligatoria («Finché c’è, viste le idee del Movimento 5 stelle degli ultimi tempi», riflette, con riferimento all’ipotesi che il congedo pre-parto venga cancellato e che le donne possano continuare a lavorare fino al nono mese). Ed è a questo punto che sono cominciati i problemi, soltanto che lei ha scoperto che lo fossero – problemi – soltanto tre mesi dopo di la nascita del suo secondogenito.
«A febbraio 2018 ho inoltrato la domanda per la maternità obbligatoria, perfettamente nei tempi, tramite lo sportello online del sito dell’Inps», spiega la cittadina catanese. «Non volevo mandare mio padre per uffici, come avevo fatto per il primo figlio, ed evitare un viaggio al Caf – racconta – Visto che c’è la possibilità di fare tutto dal computer, seguendo le istruzioni di un apposito manuale, ho seguito alla lettera tutte le indicazioni». Mentre compilava la domanda le appare un avviso che annuncia che il certificato medico che attesta il raggiungimento del settimo mese deve essere inoltrato telematicamente da un medico convenzionato con il servizio sanitario nazionale. «Chiamo il mio medico curante e lui mi spiega che non deve fare nulla e che basta inviare il certificato del ginecologo». Cosa che effettivamente combacia con quanto indicato nel manuale e ribadito nella ricevuta della domanda protocollata.
«Lì c’era scritto che il certificato poteva essere consegnato brevi manu alla sede territoriale dell’Inps oppure inviato tramite raccomandata. Io ho scelto la seconda opzione e ho spedito l’originale che mi aveva consegnato il ginecologo, che tra l’altro non aveva fatto alcun cenno a quello chr avrei scoperto dopo essere un suo dovere». La sua gravidanza procede normalmente e l’azienda le eroga i due stipendi, in attesa dell’approvazione della domanda da parte dell’Inps, che di solito è poco più che una formalità. Il 3 maggio, nato il bimbo, Rosa compila con lo stesso metodo la domanda per i tre mesi di congedo obbligatori post partum. «In quella fase la mia domanda sui due mesi precedenti, sul portale, risultava ancora in lavorazione e senza esito», continua. Nel frattempo, le viene concesso il bonus bebè da 800 euro e viene accolta la richiesta per i tre mesi successivi alla nascita.
È a luglio 2018, quando prova a compilare la documentazione per il congedo facoltativo (che prevede il pagamento del solo 30 per cento di stipendio), che può vedere che la sua prima domanda era stata rigettata. Le motivazioni le scopre solo dopo una lunga serie di richieste al call center e al servizio informazioni dell’Istituto nazionale di previdenza sociale: il certificato medico che lei ha spedito in originale avrebbe dovuto essere inviato dal suo ginecologo in via telematica, in base a quanto previsto da un aggiornamento normativo della fine del 2017. «Iniziano quindi i miei tentativi di ottenere una revisione della mia pratica: vado prima all’ufficio Inps di Mascalucia, al quale dovrei fare riferimento, ma mi dicono che devo presentarmi a quello di Catania perché la persona che si occupa di queste cose è in servizio lì – ricorda – A Catania mi dicono che devo fare istanza di ri-esame della mia pratica: la compilo e viene protocollata. Ad agosto mi arriva una raccomandata dell’Inps, redatta prima della mia istanza di ri-esame, in cui mi viene comunicato quello che già sapevo da luglio e in cui mi si chiede la restituzione delle somme percepite».
L’istituto nazionale, comunque, non le risponde. A questo punto lei si rivolge a un Caf per fare ricorso. «Ho pensato che, forse, la richiesta formulata tramite un ufficio potesse dare più chances di avere finalmente una risposta». Ma anche in questo caso, la replica è solo il silenzio. Passati 90 giorni, come previsto dalle regole dell’Inps, decide di rivolgersi a un avvocato e presenta un ulteriore ricorso: «Quando ho scoperto che l’errore era il supporto sul quale avevo inviato il certificato medico, il mio ginecologo ha tentato di inoltrarlo per provare a risolvere la situazione. Ma ovviamente non era più possibile – prosegue Rosa – Il rischio, adesso, è che io debba restituire due mesi di stipendio che mi spettavano di diritto, soltanto perché il manuale di compilazione sul sito dell’Inps non era aggiornato e l’avviso che compariva non spiegava, di preciso, cosa si dovesse fare».
Una trappola burocratica che parte, però, da una giusta intenzione: «A rigore di logica, l’invio telematico del certificato medico serve a risparmiare il tempo e le energie di una futura mamma e tonnellate di scartoffie. Eppure, adesso, questa cosa si ritorce contro a una persona che loro avrebbero dovuto tutelare. Vengo privata di un diritto per un errore che io ho commesso sulla base di materiale informativo fornito da loro e della dimenticanza di un medico». E conclude: «Solo di recente ho scoperto che lo stesso errore è costato la medesima privazione a una mia amica. Se è capitato a me e a un’altra persona nel mio giro di conoscenze, devo immaginare che sia successo a tante altre donne nella mia situazione. Si possono rischiare due mesi di stipendio così?».