Per un bagaglio di troppo «Se non ti ammazzo io…»

Quando una fa la pendolare con l’aereo la sua vita trascorre tra un aeroporto e l’altro, in attesa di un check-in o di veder cambiare l’orario dell’imbarco a causa di un ritardo. Se poi la persona di cui sopra fa la pendolare con l’aereo partendo spesso e volentieri da Catania, è ovvio che la compagnia d’elezione sia la Windjet, la low-cost che fa penare, sì, ma arriva a Milano Linate senza troppi fronzoli.

Per chi non lo sapesse, la Windjet permette di portare in cabina un bagaglio a mano e una borsa. Niente di particolarmente ingombrante, per carità, ma comunque un’eccezione rispetto ad alcune altre compagnie che, per tenere sgombre le cappelliere e guadagnare qualche euro in più, vietano tassativamente di portare a bordo perfino una borsetta da mano oltre al più classico dei trolley. Ma non sono le scelte commerciali – tutte legittime – ciò di cui sto per parlarvi.

Il mio racconto parte da un ritorno Milano-Catania in ritardo di una ventina di minuti. L’aereo, atterrato puntualissimo nel capoluogo lombardo, ha fatto tardi a causa dei troppi bagagli. Le cappelliere erano piene fino a scoppiare, i passeggeri tenevano in mano cappotti e piumini per non ingombrarle ulteriormente e far spazio alle valigie, le hostess non sapevano più come spiegare alla gente che alcuni borsoni andavano in stiva perché non c’era altro posto dove metterli. Io, che venivo da una trasferta di qualche giorno appena, avevo solo una borsa che stava benissimo sotto al mio sedile, quindi osservavo la situazione senza battere ciglio. A un certo punto, un uomo alto e distinto – valigetta, giacca e cravatta – si siede nella mia stessa fila, al posto che dava sul corridoio, mentre il mio era quello vicino al finestrino. Tra noi, un vuoto. L’uomo mi guarda, ammicca, recupera la sua valigia dal corridoio e la mette dove avrebbe dovuto starci un passeggero. Quindi le stringe le cinture di sicurezza – sì, alla valigia – e la nasconde coprendola col suo cappotto. Io rimango interdetta e lui mi invita a tacere. «Anzi – aggiunge – mi dia la sua giacca così la copriamo meglio». E fa per strapparmela dalle mani. A quel punto, manifesto il mio fastidio: «Non credo che quella valigia possa stare lì, bisogna che la tolga». «E perché non ci può stare?», mi domanda. «Ragioni di sicurezza, immagino», dico io. Lui, sempre cortese e distinto, ridacchia: «Ma si figuri se cade proprio il nostro aereo». E si volta.

Passa una hostess carica di trolley superflui da mettere in stiva. L’uomo si volta ancora, mi fa l’occhiolino e sussurra: «Li abbiamo presi bene in giro, vero?». «Guardi che non stavo scherzando, tolga da lì quella valigia, altrimenti sarò io ad avvisare il personale di cabina». A quel punto, succede una cosa che ha dell’incredibile. Entra un passeggero ritardatario che, col biglietto in mano, indica quel posto centrale: «Qui ci sono io», afferma. «No, questo posto è occupato», gli risponde divertito il distinto signore che l’educazione e il rispetto delle regole li aveva lasciati prima di salire sull’aeromobile, evidentemente. Il nuovo venuto pensa a uno scherzo, e quello si fa serissimo: «Si trovi un altro posto, le ho detto che questo è occupato». Il primo capisce l’antifona e va via, io resto incredula.

Mi arrabbio e lui – inseparabile al suo tesoro – pure. «Non è corretto», faccio io. «Se in Italia qualcuno facesse le cose corrette…», mi incalza lui, si alza in piedi e comincia a urlare. Da distinto maleducato che era, si trasforma in un maleducato normale. Mi dà della poco di buono in dialetto catanese, inveisce contro la mia giovane età, immagina che da grande sarò una rompiscatole, una che non troverà marito neanche a cercarlo col lanternino. Sto usando degli eufemismi, ça va sans dire. Il personale di bordo accorre, una giovane hostess capisce tutto, toglie via la valigia abusiva e mi dà ragione. L’uomo è implacabile: l’aereo non sarebbe caduto, dice, e se anche fosse successo l’importante sarebbe stato che fossi io a passare a miglior vita.

Non riesco a dire una parola, sono raggelata e non voglio abbassarmi al suo livello, fomentarlo. Non c’è verso di farlo calmare e tutti gli altri passeggeri, attorno a me, tacciono. Nessuno risponde. L’uomo si siede, mi ringhia contro, mi minaccia che se succederà qualcosa al suo prezioso bagaglio se la prenderà con me, e non sarà più buono solo perché appartengo al gentil sesso. Intanto l’aereo decolla. Per tutta la durata del volo, l’uomo mi insulta a denti stretti. All’atterraggio guarda con aria saccente: «Tantu su n’ammazzu iu, u’ fa occarunu autru». Traduco, per chi non dovesse capire: «Tanto, se non la ucciderò io, lo farà qualcun altro».

Sono ancora viva, mi pare chiaro. Il problema è il disgusto che non vuole passare.

Licia S.


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