Processo Scuto, parla il pentito Giuseppe Laudani «La mia famiglia in affari con lui. Era cosa nostra»

«Lui era nostro socio in affari e chiunque veniva chiamato a testimoniare doveva farlo falsamente per scagionarlo». Il «lui» in questione è Sebastiano Scuto, l’ex padrone dei supermercati a marchio Despar in Sicilia, partito da San Giovanni La Punta. A parlare, invece, è Giuseppe Laudani, ex reggente della famiglia mafiosa creata dal nonno Sebastiano. L’imprenditore e il pentito. L’accusato di mafia e l’ex capomafia. Il primo seduto in un’aula del secondo piano del tribunale di Catania e sottoposto alla sorveglianza speciale, l’altro collegato da un luogo riservato per deporre a processo. Passaggi fondamentali dell’ultimo capitolo di una storia giudiziaria nebulosa, iniziata ormai vent’anni fa. Basti pensare che Laudani era stato già sentito, subito dopo essersi pentito, nel 2010. Mentre per Scuto è il terzo processo d’Appello

Nessuno poteva agire nei confronti di Scuto. Era cosa nostra

Ad ascoltarlo non c’è Franco Coppi, l’avvocato che insieme al professore Giovanni Grasso, difende l’imprenditore. Poco dietro Scuto c’è invece la moglie Rita Spina, mentre tra il pubblico siede il figlio Salvatore. Laudani parla per quasi due ore, chiedendo una sola pausa di «cinque minuti per andare un attimo in bagno». Si parte con le domande della procuratrice generale Miriam Cantone sulla testimonianza, risalente al 2008, di Raffaele Sapia. «Eravamo detenuti insieme a Catanzaro – racconta Laudani -. Lui non sapeva cosa dire e io gli preparai un manoscritto per riuscire a scagionare Scuto. Gli scrissi che avrebbe dovuto parlare di un’estorsione». L’obiettivo, stando alla sua testimonianza, sarebbe stato quello di fare passare l’imprenditore come vittima. «In realtà era un nostro amico, un socio anche di mio padre negli anni ’80». Lo stesso che avrebbe incontrato Scuto personalmente, quando il collaboratore aveva appena nove anni. L’aneddoto, a quanto pare del tutto inedito, viene descritto con diversi particolari: «Mio padre gli consegnò i soldi che avevamo contato con mio cugino e mio fratello. Erano conservati dentro dei sacchi neri».

Dall’aula Scuto ascolta e guarda lo schermo, mentre Laudani lo accusa di avere costruito le sue fortune a braccetto con Mussi i’ ficurinia. Il collaboratore di giustizia è incontenibile e parla anche di un altro incontro che sarebbe avvenuto durante la sua reggenza: «Lo vidi personalmente e mi diede 25 o 30 milioni di lire». Estorsione? «No», risponde Laudani. Per poi aggiungere: «In quel caso non sarei stato in grado di conteggiare quanto avremmo dovuto chiedergli considerato il suo impero economico. In realtà il suo fu un gesto d’affetto nei confronti della mia famiglia». Uno dei punti sui quali vengono chieste spiegazioni al testimone è quello sul presunto sequestro ai danni del figlio dell’imprenditore. «Non sono a conoscenza di questa storia – taglia corto Laudani -. Prima di tutto bisogna capire se è vero, perché non sarebbe stato di nostro interesse fare una cosa del genere, poiché Scuto era cosa nostra». 

Se c’è una cosa che Laudani sottolinea più volte durante la deposizione è la presunta protezione che la famiglia mafiosa avrebbe esercitato attorno all’imprenditore. Nonostante sia rimasto vittima negli anni di furti e rapine : «Quella è la piccola criminalità che conosciamo tutti a Catania. Può essere stato qualcuno di San Cristoforo. Anche a me hanno rubato la macchina. Il mio compito era quello di attivarmi per capire se gli autori erano di qualche altro clan». In quel caso, attenendosi alle parole usate in aula, si sarebbe passati «alle ripercussioni drastiche, perché nessuno poteva agire nei confronti di Scuto». Nemmeno Corrado Trigila, attivo con l’omonimo clan nella parte meridionale della provincia di Siracusa e intenzionato, stando al racconto di Laudani, a provare a ottenere qualcosa da Scuto: «Appena ho scoperto questa cosa mi sono fatto aprire la cella e ci sono andato a parlare». E questo grazie alla possibilità di cui avrebbe goduto Laudani in carcere, avendo a libro paga diversi agenti della polizia penitenziaria. «Facevamo quello che volevamo. Playstation, telefoni e champagne», racconta. 

La tensione cresce quando si passa al contro-esame della difesa. L’avvocato di Scuto rilegge vecchi verbali del collaboratore e contesta il cambio di versioni offerte nel tempo. Fino a quando arriva la domanda sui rapporti con la famiglia paterna e il trasferimento da Torino a Catania. Laudani replica piccato: «Le rispondo – dice rivolgendosi a Grasso – soltanto perché sono educato. Lei sta violando la mia privacy. Io ero il nipote prediletto di mio nonno (Sebastiano, morto nel 2017, ndr), teneva le mie scarpette appese in una stalla e, quando venivano Nitto Santapaola o altri capimafia, mi mostrava a tutti».


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