In un doc il recupero dei condannati per reati sessuali «Senza un percorso, alta recidiva fuori dal carcere»

Sergio, Gianni, Giuseppe, Valentino, Carlo, Enrique. Condannati per reati sessuali e detenuti nel carcere milanese di Bollate. Tra di loro pure un siciliano, da circa cinque anni dietro le sbarre per violenza su una donna. Definiti infami dagli altri carcerati e ad alto rischio di incappare nuovamente nello stesso tipo di violenza, una volta scontata la pena. Loro però hanno scelto di guardare dentro la loro colpa, chiamarla per nome e provare a costruire davvero una nuova vita, affidandosi all’Equipe dell’Unità di Trattamento per autori di reati sessuali del Cipm, il Centro italiano per la promozione della mediazione. Un gruppo di psicologi, criminologi e terapeuti sta portando avanti anche con loro il primo esperimento in Italia per evitare il rischio che le violenze siano compiute ancora. Il regista Claudio Casazza li ha seguiti per un anno raccontando questa esperienza nel documentario Un altro me, presentato oggi in anteprima mondiale al Festival dei popoli di Firenze. 

‘Un altro me’ di Claudio Casazza_trailer from enrica capra on Vimeo.

«Ho deciso di pormi al centro della stanza – racconta a MeridioNews – a metà strada tra l’equipe e i detenuti, senza pregiudizi, conoscendo il minimo indispensabile di chi mi sarei trovato davanti. Ho voluto che fosse un territorio aperto, d’altronde quello che raccontavano era terrificante ed era giusto approcciarsi nel modo meno invasivo possibile». Così Casazza ha ripreso le sedute terapeutiche. «Avrei potuto intervistare i protagonisti di questo percorso, ma sarebbe stato tutto ancora più mediato». 

L’unità di trattamento di Bollate è un’esperienza unica in Italia, che nasce dalla consapevolezza che la pena detentiva per gli autori di reati sessuali si è dimostrata inadeguata. «Abbiamo creato una sorta di comunità terapeutica detentiva all’interno del carcere o in strutture vicine – spiega Paolo Giulini, criminologo a capo dell’Equipe – sulla scorta di una tradizione trattamentale avviata trent’anni fa negli Stati Uniti e in Canada». I detenuti che decidono di iniziare questo percorso vengono seguiti per un periodo che va dai nove ai 15 mesi. «Trattiamo le problematiche relative alla devianza sessuale – precisa Giulini – cerchiamo di modificare la posizione dell’io rispetto alla sua fantasmatica, cioè al suo rapporto con i desideri più inconsci». Una volta fuori dal carcere, uno su tre decide spontaneamente di continuare attraverso il Presidio criminologico territoriale, che esiste solo a Milano.

In dieci anni sono stati 250 i detenuti in trattamento. «Non si può parlare di una categoria in senso psicopatologico – sottolinea Giulini – ma in senso criminologico sì. Detto questo, alcuni tratti comuni esistono: le difficoltà di contatto con il loro mondo emotivo, modi distorti di vedere la realtà, la tendenza all’impulsività, un’infanzia non protetta, anaffettiva, anche se non tutti hanno subito traumi o abusi. Hanno un deficit di empatia, non hanno una grande considerazione dell’altro». Altro aspetto ricorrente è la negazione di quanto commesso. «Scattano dei meccanismi difensivi, negano o minimizzano per proteggere se stessi dall’angoscia». 

Impossibile invece cercare costanti nell’età o nell’estrazione sociale. «E questa è una delle cose che più mi ha scosso – racconta il regista – davanti a me sono passati trentenni, quarantenni, uno di oltre 60 anni e uno di 21. Di livelli culturali diversissimi tra loro, persone vicine a noi. In fondo alcuni tratti sono comuni a tutti gli uomini, basta andare su Facebook per rendersene conto, non serve osservare chi ha commesso reati sessuali». Ed è proprio l’impegno a parlare di questo problema ad aver spinto Casazza a realizzare il film. «La società tende a non parlarne, si pensa che sia una cosa che riguarda pochi e che quei pochi vadano incarcerati e buttata la chiave. Ma, statistiche alla mano, se non pensiamo a queste persone, quando escono da lì, ricascano nello stesso reato. C’è una recidiva clamorosamente alta». 

Da questo punto di vista i risultati dell’equipe di Bollate sono incoraggianti. Su 250 detenuti trattati si registrano solo sette casi di recidiva. «Chi si macchia di questi reati e rimane in carcere senza fare un percorso rimane come ibernato – spiega il criminologo – Non elabora la colpa, nessuno lo mette in discussione, i meccanismi psicologici rimangono uguali e si scongelano una volta fuori dal carcere». Al contrario, procedendo per piccoli passi, chi accetta la terapia comincia a guardare dentro l’abisso che si è lasciato alle spalle. «Si parte dalla gestione dello stress e del trauma – racconta il regista Casazza – spesso vengono usate delle lettere: di vittime di violenza, o di altri detenuti che hanno seguito lo stesso trattamento. Poi sono loro stessi a raccontare quanto commesso, si ascoltano a vicenda e spesso, proprio in quel momento, cominciano a capire che il loro reato è grave e che non è colpa della vittima. Un percorso di maturazione attraverso la storia dell’altro. In un caso è venuta anche una donna abusata e ha tenuto un discorso davanti a loro. Un’esperienza che può sembrare assurda e paradossale – conclude – ma che è stata determinante per raggiungere l’obiettivo: far rientrare queste persone nel campo degli umani».


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