Guardando al di là del muro

“Sembrava impossibile riempire questo posto e invece…”. L’ingegnere Alfio Monastra osserva quasi stupito il via vai di gente che popola i grandi corridoi del Monastero. “Quando venni qui nel ’78, in occasione di una festa dell’Unità, era solo una struttura maestosa, ma vuota. Adesso tutto è cambiato”. Già, adesso è la sede di due importanti facoltà con migliaia di iscritti, è sede di conferenze, dibattiti, eventi culturali. Ma non basta. Non basta soprattutto se confrontiamo la realtà con le aspettative nate a metà anni ’70, quando, dovendo trasferire la facoltà di Lettere dall’attuale Rettorato, la scelta cadde proprio sul Monastero, a discapito di Librino. La città si divise in quegli anni tra i pro-Librino e i pro-Centro Storico: ambienti culturali, architetti, giornalisti presero posizione, ma entrambi gli schieramenti concordavano su un punto, su un ambizioso sogno: l’università avrebbe rivitalizzato l’intera zona circostante, portando dinamicità culturale ed economica. Ed effettivamente negli anni che seguirono questa scelta, durante il restauro del monastero, si pose il problema di come estendere l’opera di riqualificazione all’intero quartiere.
 
Ingegner Monastra, che ruolo ebbe lei in quegli anni?
Nel 1986 era assessore all’urbanistica del Comune di Catania il prof. Giuseppe Giarrizzo. Mentre si procedeva al restauro del Monastero, si rese conto che il Comune avrebbe dovuto e potuto estendere la riqualificazione. Così diede a me e ad altri miei colleghi il compito di realizzare uno studio sul quartiere Antico Corso. Quando finimmo, però, Giarrizzo non era più assessore, perché l’amministrazione durò meno di un anno. La giunta cadde sul problema della riqualificazione del san Berillo, in particolare di corso Martiri della Libertà.
 
Che cosa prevedeva il progetto?
Gli obiettivi fondamentali erano due: il recupero del tracciato delle antiche mura lungo la via Plebiscito e la riduzione del peso urbanistico delle attività di eccessiva attrazione, che non potevano essere sopportate dal quartiere. Un solo quartiere non può reggere la presenza di un’università, di due ospedali e di un liceo. Noi dunque proponevamo la demolizione dell’ospedale Santo Bambino, che era ed è la cosa più pesante dal punto di vista sia delle funzioni che delle costruzioni. Non era poi una cosa impensabile, perché con gli attuali programmi di costruzione dell’ospedale San Marco, i servizi del Santo Bambino si sarebbero potuti trasferire lì. Proponevamo, inoltre, di declassare il liceo Spedalieri a scuola media, una struttura più di quartiere, visto che l’edificio era già allora inadeguato all’attività di liceo in quanto gli spazi disponibili non bastavano. Si sarebbe così restituito il quartiere a una funzione residenziale e studentesca. Al posto dell’ospedale Santo Bambino, infatti, si sarebbero dovute realizzare abitazioni per studenti nella prospettiva di una crescita dell’università come numero di iscritti.
 
L’ospedale Santa Marta, che è il più vicino al Monastero e che oggi ospita pochi reparti, non rientrava nel vostro progetto?
Noi seguivamo un principio: ricostruire il tessuto urbanistico originario del quartiere, paurosamente sventrato dalla speculazione edilizia tra anni ’50 e ’70. Quella dell’ospedale Santa Marta era per noi una situazione meno grave, perché era stato costruito rispettando gli allineamenti delle vecchie abitazioni terrane. Non prevedevamo quindi l’abbattimento, ma, avendo presente l’improponibilità dell’edificio dal punto di vista visuale, pensavamo a una ristrutturazione che tenesse conto delle caratteristiche del quartiere. Ritenendo di essere già abbastanza controcorrente a proporre l’intervento sul Santo Bambino, col Santa Marta eravamo stati più cauti per non crearci troppi nemici.
 
Parlava anche del recupero del tracciato delle antica mura della città. Che vantaggi avrebbe portato al quartiere?
Le mura della città risalgono al 200-300. Una parte del tracciato attraversa proprio l’ospedale santo Bambino, altre ricadono in altre proprietà. Noi avremmo voluto creare un percorso pedonale, realizzando dei giardini intorno alle mura. Un percorso che collegasse la facoltà di Giurisprudenza di villa Cerami con il monastero, in modo da creare un unico ambiente universitario.
 
Che fine fece il progetto?
Nella giunta successiva divenne assessore all’urbanistica il dott. Scapagnini, all’epoca nel partito socialista, quindi della stessa corrente politica del suo predecessore Giarrizzo. Tuttavia credo che i due non si amassero molto. Scapagnini non tenne in nessuna considerazione questo lavoro che rimase sulla carta. Passarono gli anni e ci occupammo di altre cose, vista l’assoluta indifferenza delle amministrazioni. Però il comitato degli abitanti dell’Antico Corso ha fatto proprio il progetto e ha portato avanti delle piccole battaglie, non ottenendo tuttavia quasi niente.
 
La questione della riqualificazione del centro storico tornò al centro dell’attenzione con il progetto dell’architetto Cervellati. Cosa era previsto per il quartiere Antico Corso?
Il sindaco Enzo Bianco nel ’93 iniziò il progetto di un nuovo piano regolatore, visto che quello in vigore era il piano Piccinnato del ’69 e teoricamente i piani regolatori si dovrebbero aggiornare ogni dieci anni. Il consiglio comunale diede gli indirizzi, le linee da seguire, e devo dire che fu una congiuntura particolarmente felice: con Tangentopoli c’era stata una sorta di purificazione della classe politica, che tutti ora guardavano con occhi diversi. Soprattutto c’era stata una rottura drastica del legame stretto tra l’imprenditoria catanese e la classe politica. Il progetto fu affidato a Cervellati, che aveva acquisito fama nazionale e internazionale, grazie anche al recupero del centro storico di Bologna negli anni ’70. Avendo particolarmente a cuore la riqualificazione dei centri storici, condivise in gran parte il nostro progetto sul quartiere Antico Corso: conservò cioè gli interventi volti al recupero del tessuto antico della città, eliminando tuttavia la demolizione dell’ospedale Santo Bambino. Cervellati proponeva di ricostruire le case con le tipologie edilizie tradizionali, il tessuto storico precedente allo sventramento insensato degli anni 50-70, mentre noi avevamo inserito allineamenti diversi e più moderni per le residenze.
 
Ma anche le proposte di Cervellati finirono con un nulla di fatto. Perché?
Probabilmente ancora una volta a causa di San Berillo e del Corso Martiri della Libertà. Cervellati adottava un solo metodo. Per le parti storiche della città che avevano subito demolizioni, proponeva due alternative: o lasciare spazi liberi, o riproporre i tessuti antichi. Ciò valse anche per il Corso Martiri della Libertà dove il suo progetto era ricostruire il tessuto del vecchio San Berillo. Questa decisione creò una fortissima opposizione in città contro di lui, sia in ambienti politici, sia culturali. A ciò si aggiunse la fortissima opposizione dei costruttori, perché lui affermava che la riqualificazione dei centri storici era realizzabile solo bloccando l’espansione della città. Continuando a costruire del nuovo non ci sarebbero mai state le forze e gli interessi per occuparsi della riqualificazione del centro storico. Le aree rimaste vergini erano un bene da tutelare e conservare, un’area risorsa, di cui avrebbe potuto usufruire l’intera cittadinanza. Oggi invece tali aree sono diventate risorsa unicamente per l’imprenditoria, che vi può costruire liberamente.
 
In questa città è quindi impossibile realizzare una vera riqualificazione del centro storico?
Catania non ama le regole, la pianificazione porta delle regole, quindi Catania non ama la pianificazione. Questo fatto di non approvare il piano credo sia piaciuto a tutti, perché senza piano, ma trovando i dovuti cavilli e i dovuti appoggi, si riesce a fare ugualmente tanto. Ci vuole una volontà politica forte; un’amministrazione che faccia proprio il progetto. E invece il Comune di Catania urbanistica non ne ha fatta mai. Gli unici interventi che ha fatto sono stati spinti dall’interesse dell’imprenditoria. Il motivo per cui non si sono fatte operazioni come quella della riqualificazione del quartiere Antico Corso è il disinteresse dell’imprenditoria locale. L’operazione San Berillo degli anni 60 è l’esempio contrario. Eppure, quella dell’Antico Corso, era un’operazione molto più semplice. Se ci fosse stato un Costanzo a cui fosse piaciuta, molto probabilmente si sarebbe realizzata.


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