Migranti, a Palermo quasi 40 centri per minori Mediatrice interculturale: «In pochi ce la fanno»

I volti dei migranti sono come specchi. A chi sa guardarci dentro rivelano provenienza, percorsi, speranze infrante. Elisa Di Cara ne ha conosciuti tanti negli ultimi cinque anni trascorsi come mediatrice interculturale, prima in Siria e poi a Palermo. Oltre all’arabo, parla anche l’inglese e il francese ma, spiega, per fare sentire qualcuno al sicuro basta una mano poggiata sulla spalla. Ogni tre mesi circa ne arrivano di nuovi. Vanno via da Gambia, Senegal, Mali, Costa D’Avorio, Nigeria, Sudan. Più raro è invece incontrare eritrei e somali. Infine ci sono egiziani e siriani. Tra questi anche diversi minori migranti, accompagnati dai genitori o in viaggio da soli. Secondo i dati del ministero dell’Interno, nel 2015 la Sicilia ha accolto 3967 minorenni, il 36,2 per cento di tutta Italia.

A Palermo, stando ai dati del Comune, sono presenti 37 centri di accoglienza per minori, stranieri e italiani. Un numero elevato, se confrontato agli altri capoluoghi siciliani. La maggior parte sono comunità alloggio, due sono centri di prima accoglienza. Nelle comunità alloggio i ragazzi possono andare a scuola, frequentare corsi professionali e svolgere attività anche ludiche. «Per ogni migrante ospitato il centro riceve 45 euro dal Comune che a sua volta attinge alla Comunità europea» spiega la mediatrice. Alcune di queste strutture esistevano già prima dei consistenti flussi migratori degli ultimi anni e accoglievano per lo più minori palermitani con condizioni familiari particolari. Oggi, insieme a bambini e ragazzini siciliani, ci sono coetanei da tutto il mondo. E in alcuni casi le comunità accolgono ormai solo ospiti stranieri.

Ogni struttura ha degli operatori e un finanziatore che anticipa i soldi per l’accoglienza. Qui c’è il primo corto circuito. «Spesso – continua Di Cara – capita che questi rimborsi tardino ad arrivare e questo si ripercuote sul servizio offerto ai ragazzi ospitati e anche sul lavoro degli operatori che vengono pagati in ritardo». E non sono pochi i ragazzi che dicono di essere minorenni quando in realtà non lo sono. Nei centri per adulti (Cara o Sprar) infatti ci sono meno tutele «ed molto difficile che vadano a scuola», racconta ancora la mediatrice. Quindi diventa sempre più complicato per loro integrarsi nel territorio, anche perché «queste strutture sono decentrate rispetto alla città. A volte, se va bene, vengono reclutati nei campi di pomodoro o se va male per vendere droga. Così finiscono arrestati e rimpatriati».

Molti migranti, inoltre, minori e non, continuano ad arrivare qui inconsapevoli di quello che dovranno affrontare. Spesso vogliono proseguire per il Nord Europa e non sanno che «dovranno restare in Italia almeno un anno». Per questo stanno nascendo dei progetti attraverso colloqui con gli immigrati che vogliono mettere a punto una strategia di comunicazione corretta verso la patria di origine. «Quando arrivano qui mandano foto rassicuranti a casa – dice Di Cara – e trascurano di raccontare dettagli delle violenze subite durante il viaggio. A volte vorrebbero tornare a casa ma non lo fanno perché non hanno soldi. Spesso hanno investito tutto quello che avevano e non possono permettersi di tornare indietro. Per alcune persone sarebbe addirittura meglio». Capita anche che «chiedano di ricevere un telefonino per chiamare casa e non capiscono che purtroppo si tratta di beni non previsti dal budget europeo».

Ma c’è una differenza tra i migranti. Quelli che vivono scenari di guerra arrivano qui con la paura scritta negli occhi. «Ricordo una donna siriana – racconta la mediatrice – quando è arrivata qui l’ho salutata nella sua lingua. Allora mi mi ha baciato le guance e mi ha abbracciato. Solo perché stavo lavorando sono riuscita a trattenere le lacrime». Durante gli anni trascorsi nei centri di accoglienza, Di Cara è rimasta colpita da un ragazzo senegalese che ha lasciato la mamma ad aspettarlo. «Parla sei lingue – racconta – Ha fatto questo viaggio, appena 17enne, per aiutarla. Mi ha colpito non per le lacrime versate al suo arrivo ma perché penso che la sua vita sarà sprecata. Sono un po’ disillusa sulle possibilità concrete che avrà di emergere dalla sua condizione. Sono davvero poche le persone che ce la fanno». Ancora per un anno questo ragazzino non potrà dare nulla alla madre e adesso non sa più nemmeno dove si trovi la donna: «Ha avuto un problema con l’Imam del villaggio ed è dovuta andare via».


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Elisa Di Cara lavora con bambini e ragazzini che affrontano il viaggio da soli. Per alcuni di loro sarebbe stato meglio non essere mai partiti. Altri, invece, scappano dalla violenza della guerra. «Sono un po’ disillusa sulle possibilità concrete che hanno di emergere», spiega

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