Dopo il pronunciamento dell'Accademia della Crusca sulla nota questione che divide i siciliani, c'è chi immagina di rivolgersi alla politica - nello specifico il deputato catanese Giuseppe Berretta - affinché il governo prenda posizione. Il commento satirico di un noto cultore della catanesità
Se il sesso degli arancini arriva in parlamento «Onorevole, la prego, inoltri l’interrogazione…»
Egregio onorevole Giuseppe Berretta, vengo umilmente con questa mia a pregarla di inoltrare alla presidenza del consiglio dei ministri e al ministero delle Politiche agricole la seguente interrogazione parlamentare.
«Sig. Presidente, sig. Ministro,
come le Loro Signorie certamente sapranno, da circa mezzo secolo, si consuma in Sicilia una sterile disputa etimologica e, più in generale, sulla declinazione della parola arancino. In particolare, a Catania, della cui circoscrizione mi pregio essere Rappresentante, e invero nel resto della Sicilia, con la sola eccezione della provincia di Palermo, e in Italia tutta, il termine si declina al maschile. Arancino è, infatti, la traduzione italiana di arancinu, che significa piccolo aranciu, cioè piccola arancia in siciliano. Vi sarà certamente noto, infatti, che i nomi dei frutti in dialetto si declinano al maschile. Ciò è confermato da tutti i vocabolari della lingua italiana, le cito il Devoto Oli, il Treccani, il Sabatini Coletti, su tutti, dove infatti il termine arancina non esiste. Voi lo cercate e, al femminile, non c’è.
Oltre che in numerose citazioni letterarie, ancora, il termine arancinu si trova nel dizionario siciliano dell’800. Succede, purtroppo, che a Palermo, e mi avvio a concludere, civiltà aristocratica, poco incline all’uso del dialetto, dove il cibo viene mangiato con le forchette di cachemire, un oggetto molto simile all’arancino, viene chiamato, con chiari intenti omofobi, al femminile, arancina, termine che, a loro avviso, significherebbe, senza passare dal dialetto, piccola arancia. Di tale declinazione, non è sterile ribadirlo, non vi è traccia alcuna nei vocabolari della lingua italiana.
Ora accade che, interpellata sul punto, perché ponesse fine a questa sterile polemica, l’Accademia della Crusca ha legittimato e sdoganato ufficialmente, con la consulenza che qui si allega, anche l’uso del femminile, del quale, forse apparirò ripetitivo, non c’è traccia alcuna nei vocabolari della lingua italiana. Voi ne aprite uno a caso e, “arancia, aranciata, aranciato, aranciera, arancino, arancio”, arancina non c’è.
Una decisione che non esito a definire democristiana, da Prima Repubblica, cui non avrebbe osato neanche Paolo Cirino Pomicino, ma che mette seriamente in pericolo la lingua italiana, introducendo il principio che chiunque si alzi al mattino e possa legittimare l’uso di termini e terminologie che non esistono nel vocabolario della lingua italiana. Tale strumento dovrebbe, infatti, rappresentare il confine tra ciò che si può dire e ciò che non si può dire, secondo l’ovvia regola per cui, apro il vocabolario, la parola c’è, lo posso dire, apro il vocabolario, la parola non c’è, non lo posso dire, o quantomeno lo posso dire, per carità, ma non è corretto.
Salvo correggere dal vocabolario il significato della parola vocabolario, questa regola appare essere ciò che ci distingue dagli animali, impedendoci di dire parole a caso, solo perché qualcuno le ha pronunciate; cito esempi a caso quali frullegiare, sbilicudi o soconetto. Si chiede di conoscere, pertanto, quali provvedimenti il governo intenda adottare per la tutela dell’arancino nel mondo e per arginare la deriva nell’uso corrente della lingua italiana, impedendo che qualcuno, domattina, così, sempre a caso, invece che dire ciao, si senta legittimato a salutare dicendo bongo».
Andremo fino a Bruxelles. Prendiamoci Tremonzelli. Ma facciamolo adesso.