In occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico i docenti del Cuda hanno indetto una conferenza stampa. Tema: la sopravvivenza dell'università pubblica. Al centro delle proteste la cosiddetta Vqr, che stabilisce i finanziamenti da assegnare. Ma che penalizza il Sud e «stimola la competizione feroce»
Unict, prof in protesta contro tagli e valutazione L’allarme: «Costretti a chiudere i dipartimenti»
«Stiamo protestando per la dignità e per il futuro dell’università. Ma non ne facciamo solo una questione sindacale: in ballo c’è anche il diritto allo studio». Così Gianni Piazza – professore di Sociologia dei fenomeni politici e componente del Coordinamento unico d’ateneo – spiega il motivo della conferenza stampa convocata stamattina, a ridosso dell’inaugurazione dell’anno accademico. Sul mondo universitario pesa la pesante scure di tagli senza fine. Una politica economica che ha intaccato anche il futuro pensionistico dei docenti, che per cinque anni si sono visti bloccati gli scatti stipendiali. «Un giovane ricercatore perderà 100mila euro sulla pensione», sottolinea Piazza. Ma a destare preoccupazioni è soprattutto il sistema di valutazione, la cosiddetta Vqr; un parametro sul quale il ministero basa una quota sempre maggiore del finanziamento all’università pubblica.
Da qualche mese i docenti hanno avviato l’iniziativa #StopVqr, che vede Unict tra gli atenei più vivaci. «Abbiamo deciso di boicottare il sistema non per evitare la valutazione, tutti i nostri lavori e l’attività didattica sono pubblici – chiarisce -, ma per inceppare questo ingranaggio senza penalizzare gli studenti e attirare l’attenzione del governo». Alla base, inoltre, c’è la contestazione dello stesso modello valutativo, che penalizza di gran lunga gli atenei meridionali, e che «molti considerano sbagliato – dice Gianni Piazza – Perché punisce e non premia. Viene stimolata la competizione feroce, invece di favorire la cooperazione tra studiosi. Che è il cardine della scienza».
Quello che il Cuda e i colleghi in tutta Italia chiedono è «un finanziamento adeguato al sistema universitario – elenca il docente – un piano straordinario di assunzioni, per impedire che si chiudano i corsi di laurea, che i giovani ricercatori vadano all’estero, per impedire che l’università muoia più o meno lentamente». La protesta inizia a dare i suoi frutti, per due volte il termine per il completamento della Vqr è slittato, anche se dal primo ministro Matteo Renzi e dalla ministra Stefania Giannini non è arrivata alcuna reazione. Anzi. «Lo scorso 23 luglio la Conferenza dei rettori italiani ha detto esplicitamente alla ministra che non ci sono le risorse di base. Non è consentita nemmeno la sopravvivenza delle università», racconta un altro componente del Coordinamento, Attilio Scuderi, docente di Letterature comparate. «A questo allarme il governo non si è neanche degnato di dare una risposta», lamenta. «Saremo costretti a chiudere i dipartimenti», sottolinea Scuderi. Che aggiunge: «È chiaro che l’università pubblica così muore. Stiamo camminando su questo filo da anni».
La parabola discendente ha un punto di partenza preciso: «È iniziato nel 2008, con i primi tagli e la riforma 133 – ricostruisce Gianni Piazza – Da allora la tendenza non siamo riusciti a invertirla e l’esecutivo Renzi si è posto in continuità con quello Berlusconi e i governi tecnici». Otto anni fa la protesta è partita dagli studenti, con il movimento dell’Onda. «Ci sono stati cortei, occupazioni, siamo saliti sui tetti», ricorda Piazza. Una condizione molto diversa rispetto a quella attuale. «Gli studenti sono diminuiti e tra loro prevale un senso di rassegnazione – analizza il docente – La generazione del 2008-2010, quella che ha fatto l’Onda, è uscita dall’università e non c’è stato un ricambio generazionale di attivisti. O se c’è stato, è minimo», riflette. «Probabilmente sono tutti fuori – interviene Scuderi – il 97 per cento delle giovani leve nell’università sono emigrate all’estero». «In quegli anni, quando rivendicavano il diritto al futuro, ci avevano visto bene – conclude Gianni Piazza – purtroppo per loro e per noi. Ma non siamo rassegnati. Se no, non saremmo qui».