Totò Cuffaro domani torna un uomo libero La Sicilia che ha lasciato è ancora al suo posto

Dopo poco meno di cinque anni, uscendo da Rebibbia, Totò Cuffaro troverà cose diverse, ma pochi cambiamenti. Una Sicilia complessa quando non si vuole definire strana, problematica per evitare l’uso di contraddittoria, fatale per evitare il solito, abusato, irredimibile. La corsa al sostegno della parola, all’uso migliore possibile per addolcire, stereotipare, attenuare e a volte anche esasperare, in occasione della vicenda personale, politica e giudiziaria di Cuffaro, è stata frenetica, sostenuta, gestita con cura di metodo e particolarità di dettaglio. L’interdizione dai pubblici uffici gli impedirà di tornare alla politica, quantomeno a ricoprire incarichi pubblici. Anche da questo nasce quell’interesse, anche un po’ ipocrita, di una parte del mondo politico, che ha esorcizzato il ritorno di un avversario senza rinunciare al fascino di poterne evocare la suggestione. 

Cuffaro è stato condannato definitivamente nel 2011 per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra nel processo sulle talpe alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo. I giudici della Cassazione scrissero nelle motivazioni che c’era stato un «accordo politico-mafioso tra il capo mandamento Giuseppe Guttadauro e Salvatore Cuffaro» e che quest’ultimo era «consapevole di agevolare l’associazione mafiosa, inserendo nella lista elettorale per le elezioni siciliane del 2001 persone gradite ai boss e rivelando, in più occasioni, a personaggi mafiosi l’esistenza di indagini in corso nei loro confronti». 

La condanna ha chiuso la porta sul politico, senza riuscire a intaccare l’interesse anche morboso per l’uomo che divenne Cuffaro. C’era un avvocato in paese piccolo delle Madonie a cui tutti si rivolgevano per la sua universale saggezza e conoscenza. «Io farei così», rispondeva ogni volta che gli si chiedevano consigli, suggerimenti. Era il rifugio, l’assistenza, l’help desk strada strada. Era la proiezione di un bisogno di rassicurazione che in Sicilia è solo più forte, amplificato, moltiplicato. Proporzionato all’angoscia e alla paura per il fatto che non si può fare diversamente. Quell’avvocato non uscì mai dal suo piccolo paese, non fece mai politica, anche se a chi gli domandava, non si faceva brutto quando parlavano della Dc. Ecco, la parabola serve a collocare il politico di Raffadali nella dimensione sociale, storica e politica in cui si è compiuta la sua storia. Cuffaro ha incarnato alla massima potenza l’esponenzializzazione di questo bisogno. Ne ha fatto una regola esatta. Del cuffarismo si sono scritte pagine infinite a testimonianza del fatto che, senza la vicenda giudiziaria e la condanna, Cuffaro sarebbe forse ancora al suo posto. 

È stata proprio la detenzione di Cuffaro a proiettarlo su una scena in cui il risentimento della gente nei suoi confronti, quel bisogno di forca che si abbatte sul potente decaduto, dietro la cui porta si stava fino ad un minuto prima, si è attutito, scemando verso un rispettoso e rispettato momento di silenzio. Sui conti in rosso della Sicilia, sul giudizio politico e sul modello clientelare di gestione di Cuffaro, alla fine è scesa sempre un’ombra di indulgenza non casuale. Una condivisione di sistema, un perdono di massa che nasce dalla consapevolezza che la Sicilia ha creato Cuffaro e non il contrario. Ciò che è stato visto, compreso, osservato, studiato dal siciliano medio, l’ex presidente della Regione lo ha restituito in una forma che ha consentito ai siciliani quasi di vivere dal di dentro la sua esperienza di presidente. O così appariva. Frammenti di potere dove le distanze si azzeravano nei baci che si scambiavano. Cuffaro e il suo popolo. Dalle piazze agli uffici, dagli incontri all’uscita dall’auto, a chi lo aspettava sempre davanti allo stesso bar. 

Ma il silenzio su Cuffaro non poteva durare. E non è durato. Il meccanismo circolare, quel ciclo per il quale in Sicilia ci sono ancora Miccichè, Orlando, Bianco, è dato dall’incapacità di rischiare un modello diverso della politica e della rappresentanza. Cuffaro è stato espressione del potere e della sua rappresentazione, nella sua dimensione pret a porter, – anche se occorre dirlo senza alimentare miti e creare simboli – nella sua intelligenza politica non c’è stato nulla di dozzinale, ma solo la ricetta che i siciliani hanno voluto.


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