La discussione sui giganti di Rabarama e quei ragazzi armati di pennarello continua. Riprendiamo dal forum gli ulteriori interventi di Sergio Barone, Gabriella Trovato e Chiara Tumino. Una cosa è certa: "non basta mettere le sculture per strada per ottenere dei risultati ". Soffermiamoci allora su tutto quello che manca Le opere di Rabarama deturpate in piazza Teatro Massimo Foto di Chiara Tumino
Diamo loro in mano una matita, un pennello, una telecamera…
CHIARA TUMINO
(…) Penso che parlarne sia fondamentale affinché le attenzioni di tutti si raccolgano attorno a cosa è accaduto e si sensibilizzi l’opinione pubblica e si affini il senso del bello anche in chi questo senso ancora non lo ha affinato. Nessuno con una minima sensibilità può dirsi sia un bacchettone imbambolato a bocca aperta, che davanti a sé vede fiori e api o cavalli alati volare. L’arte è vero, deve scuotere, deve attivare energie, deve essere stimolante, ma è pur vero che deve fare sognare, deve fare ritrovare, deve fare vedere aldilà di se stessa e il rammarico di tutti, è che manca la capacità di analisi di quanto ci sta attorno e la capacità di assorbire energie positive da quanto di positivo ci viene dato. Ma su questo siamo tutti d’accordo. Bacchettoni e non. Siamo tutti d’accordo sulla necessità di progettazioni, di nuove strategie d’azione, sul cambio di mentalità. Siamo in molti i sostenitori di tali necessità. Io direi sempre grazie a chi si mette in gioco, a chi si cura d’arte e a chi l’arte la fa. E agli innamorati dell’arte li lascerei ancora sognare, e più che moralisti e bacchettoni, li chiamerei educatori, che educati già all’arte, hanno la capacità di trasmettere il loro amore ai più giovani. Almeno a me, che tuttavia un certo rispetto per l’arte l’ho sempre avuto, hanno contribuito a rafforzarlo ed interiorizzarlo. E lo hanno fatto con le parole, e con la carica emozionale di chi ama l’arte al punto di trasmettere le pulsioni del bello anche ai più distratti.
SERGIO BARONE
(…) Credo che quei ragazzi abbiano inconsciamente fatto un gesto di appropriazione delle sculture con l’unico linguaggio che sono capaci di sentire loro (in questo caso un pennarello e delle scritte stupide). Purtroppo non ci possiamo scandalizzare di questi episodi, non possiamo disquisire dall’esterno sul perché molte persone non sono grado di rispettare le più elementari norme di rispetto. Sono d’accordo con l’ultimo intervento di Gabriella, non basta mettere le sculture per strada per ottenere dei risultati… questo può valere per altre realtà, purtroppo non per Catania, non per la Catania di oggi. Qui dobbiamo fare tutti uno sforzo per dare gli strumenti giusti a chi questi strumenti non ha… se non impariamo a capire il loro linguaggio noi non avremmo mai la possibilità di cambiare questo stato, se chi ha un bagaglio culturale più ampio non impara a parlare la loro lingua temo che non si verrà facilmente fuori da questa realtà. Se non partiamo da progetti mirati non illudiamoci che le estemporanee installazioni artistiche possano cambiare da sole questo stato attuale.
GABRIELLA TROVATO
Il confronto è importante. A volte si rischia di essere azzardati, quando si scrive di getto e “di pancia”, ma non era mia intenzione accusare nessuno. Il mio rammarico e la mia rabbia non sono indirizzati (o meglio, circoscritti) a quanto accaduto alle sculture di Rabarama, ma vanno ben oltre. Anche io sogno, anche io sono “innamorata dell’arte” (forse molto più di quello che riesco a far trasparire dalle mie righe) e amo moltissimo la mia città, ma sono stanca di false visioni rosee, di commenti concilianti e omissivi. Alle conferenze stampa, ai vernissage e più in generale a molti degli eventi che prendono corpo in questa città si sente sempre dire che la Sicilia ha quello che non c’è altrove, che è una terra meravigliosa… tutto vero. Ma si omette (a mio parere in modo imperdonabile quanto improduttivo e colpevole) una parte altrettanto importante che è quella inerente le cose che non vanno, le cose che mancano, l’arretratezza di certi (purtroppo molti) contesti. Senza per questo essere disfattisti, è da qui, dallo stato di fatto, che si potrebbe iniziare a fare progetti concreti. Mi piace molto la parola latina “desiderata” perché letteralmente si può tradurre proprio come “quello che manca”… mi sembra un ottimo punto di partenza per iniziare a sognare davvero, e sognare è anche progettare, lavorare per qualcosa.
Non credo che il bello non possa cambiare il mondo solo perché non lo si rispetta, ma piuttosto credo che non sia affatto il “rispetto del bello” il problema (né per l’arte, né per il mondo che purtroppo ne ha ben altri di problemi). L’arte, almeno per come la intendo io (ma non solo), non si limita a stimolare ed affinare il senso del bello, lo trovo veramente riduttivo. Inoltre, il “rispetto” da solo è una cosa ossequiosa, distaccata… poco partecipativa. L’arte non si deve solo rispettare, l’arte va anche agita e quindi valorizzata. Valorizzata non solo per il suo valore estetico, ma per la possibilità insita in essa di plasmare il mondo, le persone.
Uno degli artisti che amo di più, Bruno Munari scrive: “L’artista o l’operatore culturale di oggi, può aiutare la crescita culturale della collettività. Può preparare gli individui (a cominciare dai bambini) a difendersi dallo sfruttamento, a smascherare i furbi (invece di ammirarli o invidiarli), ad esprimersi con la massima libertà e creatività. Può continuare la tradizione invece che ripeterla stancamente”. L’arte non è staccata dal reale, non è solo bella… altrimenti i dipinti servirebbero solo ad abbellire i salotti e le sculture ad abbellire le piazze. E’ molto più di questo, credo. Ciò non solo non impedisce agli innamorati dell’arte di sognare, ma gliene dà infinite ragioni in più…
SERGIO BARONE
Rileggendo i vari commenti che si sono succeduti sul triste episodio delle sculture deturpate è facile intuire che esiste un disagio comune a noi tutti che è quello di cercare di comprendere da cosa nasce un certo tipo di disagio nei confronti dell’esposizione pubblica di opere d’arte. Nei limiti delle nostre possibilità pratiche di intervento proviamo a dare un contributo che ci porti a capire quale sarebbe la migliore via da intraprendere per fare avvicinare soprattutto i giovani “difficili” (e nella nostra città ne abbiamo parecchi) ad avere un rapporto di confronto e non conflittuale con l’arte. Mi sembra che si possa essere d’accordo che gli interventi non mirati e un po’ estemporanei (certamente non per colpa di chi li ha curati) corrono il serio rischio, come in effetti è successo, di andare incontro a brutte sorprese.
Quello che probabilmente divide i pareri è sul modo di creare i presupposti migliori affinché anche una semplice scultura possa essere vista non solo come un fortino da assaltare a colpi di pennarello indelebile. Purtroppo ritengo che in una condizione sociale come la nostra l’obiettivo degli educatori dell’arte armati di buoni propositi e inclini al sogno sia destinato a fallire, non perché sia di per sé sbagliato ma perché, come avevo provato a dire nel precedente intervento, il problema è soprattutto di linguaggio. Anni fa mi colpì molto la frase di un ragazzo di una scuola media superiore che, dopo avere ascoltato il mio tentativo di fargli apprezzare la poeticità di un film che facevo vedere, mi disse che se a lui il film non comunicava nulla non comprendeva perché si dovesse emozionare. Quella frase mi colpì molto e, a distanza di anni, ogni volta che mi capita di trovarmi a cercare di fare conoscere un’opera mi ricordo sempre di quel momento. Fairfield Porter diceva che chiedere il significato dell’arte è come chiedere il significato della vita: l’esperienza viene prima del confronto di una misura con un sistema di riferimento.
Forse la strada che può portare a qualche risultato è quella che porti i giovani ad essere loro stessi protagonisti di un processo creativo, è la loro vitalità che deve essere espressa (dando naturalmente un minimo di strumenti); finora gli unici giovani che ho sentito capaci di apprezzare discorsi astratti sul bello dell’arte e sulla capacità di sognare sono stati quelli che in realtà non avevano bisogno di nessun aiuto perché avevano già dentro di sé (magari grazie all’ambiente nel quale erano cresciuti) questi strumenti. Gli altri (la maggior parte) sono pronti a riderti in faccia delle belle parole e allora stimoliamoli in maniera diversa, diamo loro in mano una matita, un pennello, una telecamera e sfidiamoli a creare qualcosa. Se non scapperanno per cercare di rivendere gli attrezzi e cominceranno a fare qualcosa sarà un buon punto di partenza…