Processo Ilardo, le dichiarazioni di Vara e Barbieri «Era un confidente, ordine di ucciderlo dal carcere»

La sua voce nell’aula Serafino Famà del tribunale di Catania non è riecheggiata. Le dichiarazioni dell’ex boss di Cosa Nostra Carmelo Barbieri però sono comunque entrate nel fascicolo del processo sull’omicidio di Gino Ilardo. In uno dei passaggi chiave c’è la ricostruzione di come sarebbe maturato il delitto. «Dopo qualche giorno Francesco Lombardo (nipote di Giuseppe Madonia, ndrmi dice che l’ordine era arrivato dal carcere perché Ilardo era un confidente delle forze dell’ordine». Conosciuto con il diminutivo di u prufissuri, in virtù del suo passato da docente di educazione fisica, Barbieri ha ricoperto un ruolo di primo piano nella mafia gelese. Una «persona pulita», si definisce, «utilizzato per interfacciarsi con gli imprenditori». Ma anche amico di Ilardo, l’infiltrato con il nome in codice Oriente dentro Cosa nostra che aveva portato, nell’ottobre del 1995, gli uomini del Ros dei Carabinieri fin dentro il covo di Bernardo Provenzano. Il padrino corleonese, all’epoca dei fatti ricercato numero uno in Italia.

«I miei rapporti con Ilardo si intensificano a partire dal ’95 quando mi indica come suo riferimento a Gela», spiega ai magistrati Barbieri. «Diceva – prosegue il collaboratore di giustizia – di avere ottimi rapporti con Bernardo Provenzano con cui s’incontrava spesso». Il nodo cruciale, che sarà il motivo conduttore di tutto il processo, è capire tra soffiate e «spifferi» come si concretizza la scelta di eliminare l’infiltrato. Alla sbarra ci sono Maurizio Zuccaro, Giuseppe Madonia, Vincenzo Santapaola (classe 1956 ndr) e Benedetto Cocimano. In un filone d’indagine parallelo la Procura di Catania indaga invece sui presunti mandanti occulti.

«La sera prima incontrai Ilardo a Gela – continua Barbieri in uno dei passaggi del verbale -. Era in compagnia di una donna che si occupava di polizze assicurative». È il 9 maggio 1996, il giorno seguente Ilardo viene ucciso dai killer in via Quintino Sella a Catania. «Inizialmente pensavo che a ucciderlo fosse stato un macellaio con cui aveva avuto problemi». L’ex boss rivela però anche dei retroscena legati al comportamento di Ilardo: «Girava con una macchina rubata e senza documenti come se non temesse i controlli. Una volta ero in aereo per rientrare a Catania; le porte, già chiuse, vengono riaperte all’improvviso e lo vedo entrare. Lui con una battuta mi dice che era capace anche di fermare gli aerei».

«Chi è stato a uccidere Ilardo? Mi dissero che lo cercavano i catanesi». A puntare il dito contro la famiglia mafiosa dei Santapaola è Ciro Vara. Oggi collaboratore di giustizia che in passato ha rivestito il ruolo di capo della mafia a Vallelunga Pratameno, piccolo centro nel nisseno. Nel suo curriculum criminale oltre a decine di omicidi anche la partecipazione nel sequestro di Giuseppe Di Matteo. «Mi fecero il nome di Aurelio Quattroluni – racconta al magistrato Pasquale Pacifico – che era reggente di Catania. La convinzione nell’ambiente era quella del coinvolgimento di Ilardo nell’omicidio della moglie di Nitto Santapaola e dell’avvocato Serafino Famà». Vara tuttavia non fornisce ulteriori particolari sul delitto. «Il suo doppio gioco emerse soltanto dopo quando i giornali parlarono del suo ruolo di confidente delle forze dell’ordine».


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