Cinquantaquattro furti di auto nel territorio della città e della provincia di Catania, che sarebbe stato spartito tra tre diverse batterie di ladri. Da qui sono partite le indagini che oggi hanno portato all’arresto di 68 persone nell’ambito dell’operazione antimafia denominata Carback. Tra gli arrestati ci sono anche esponenti dei clan Cappello e Cursoti milanesi. […]
L’organizzazione «collaudata» e la forza della mafia dietro i furti d’auto a Catania
Cinquantaquattro furti di auto nel territorio della città e della provincia di Catania, che sarebbe stato spartito tra tre diverse batterie di ladri. Da qui sono partite le indagini che oggi hanno portato all’arresto di 68 persone nell’ambito dell’operazione antimafia denominata Carback. Tra gli arrestati ci sono anche esponenti dei clan Cappello e Cursoti milanesi. I reati contestati sono associazione a delinquere finalizzata al furto di auto oggetto di successiva estorsione con il metodo del cavallo di ritorno o di ricettazione, associazione di stampo mafioso, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, acquisto e detenzione di sostanza stupefacente ai fini di spaccio e detenzione illegale di armi e munizioni.
Un primo filone delle indagini, che sono andate avanti dal mese di settembre del 2020 al marzo del 2021, ha permesso di delineare l’esistenza di una collaudata organizzazione, costituita da 45 persone, dedita a furti, estorsioni e ricettazioni, con il coinvolgimento anche di un soggetto gravemente indiziato di appartenere al clan dei Cursoti milanesi. Tre batterie di ladri, responsabili di 54 furti, attive nelle zone di Monte Po’, San Giorgio e San Cristoforo sulla base di taciti accordi che avrebbero previsto una chiara suddivisione del territorio. La batteria di Monte Po’ operava nel quartiere Nesima di Catania e nei paesi etnei, quella di San Giorgio concentrava i propri interessi nella zona di Catania centro, mentre la batteria di San Cristoforo aveva competenza esclusiva sui centri commerciali del capoluogo. Un’organizzazione in cui alcuni avrebbero avuto il ruolo di intermediari: contattati dalle vittime, direttamente o per il tramite di conoscenti, per adoperarsi per avviare l’iter per la restituzione del mezzo.
L’importo di ciascuna delle 33 estorsioni documentate poteva variare tra 300 e 1.500 euro in base al modello e alle condizioni dell’auto, al numero di persone intervenute nell’intermediazione e al rapporto di conoscenza tra gli indagati e la vittima del furto. I veicoli venivano lasciati in sosta per strada, nel pieno rispetto di una regola non scritta in base alla quale ciascuna batteria, prima di disporre del mezzo, attendeva almeno tre giorni. E, questo, per tre diversi motivi: innanzitutto, concedere un congruo periodo di tempo al proprietario del mezzo rubato per mettersi in contatto con la batteria responsabile del furto e intavolare l’illecita trattativa per la restituzione. Il cavallo di ritorno sarebbe stato, infatti, l’obiettivo principale perché garantiva all’associazione importi immediati senza rischi connessi alla gestione del mezzo (dalla custodia al trasporto).
Altro motivo sarebbe stato quello di potere rimediare a eventuali torti, qualora l’auto fosse appartenuta a personaggi di particolare caratura criminale o persone a loro vicine. In quei casi, infatti, si sarebbe provveduto all’immediata restituzione del mezzo. Infine, quel lasso di tempo sarebbe servito anche ad assicurarsi che il mezzo non fosse dotato di dispositivi Gps nascosti e non individuati durante la bonifica del mezzo. Una strategia necessaria per scongiurare il rischio di essere scoperti dalle forze dell’ordine. Qualora le estorsioni non fossero andate a buon fine, trascorsi i tre giorni, le auto rubate sarebbero state destinate alla ricettazione, anche fuori provincia, per l’immissione nel mercato nero di veicoli e parti di ricambi. In questo ambito, sono state denunciate 13 persone per favoreggiamento personale perché avrebbero fornito alla polizia giudiziaria informazioni palesemente false e fuorvianti, aiutando in tal modo gli autori del reato a eludere le indagini.
Un secondo filone investigativo, nel quale sono rimaste coinvolte 30 persone, ha riguardato un ingente traffico di sostanze stupefacenti gestito da un gruppo criminale – con a capo un soggetto gravemente indiziato di appartenere al clan mafioso Cappello – che poteva contare anche sulla disponibilità di armi e munizioni. Al riguardo, sono state censite e monitorate due piazze di spaccio: una nel quartiere Librino e l’altra nel quartiere San Giorgio. Luoghi in cui si vendeva cocaina per un volume di affari di oltre 1000 euro al giorno per ognuna delle due piazze. Gli associati coinvolti in entrambi i filoni d’indagine avrebbero condiviso la stessa base logistica, un autonoleggio nel quartiere di San Giorgio: luogo in cui si concretizzavano gli accordi, gli incontri e i pagamenti relativi alle attività illecite ma soprattutto in cui avvenivano le contrattazioni sulla cocaina, venduta all’ingrosso a circa 42mila euro al chilo. Consegnata ai grossisti in vari punti della città, la droga sarebbe poi stata destinata al rifornimento di altre piazze di spaccio presenti nel capoluogo etneo o in altre province siciliane.