Appuntamento alla conferenza su joe petrosino che si sarebbe tenuta il giorno dopo al john jay college della city university di new york.
Così parlava Piero Grasso tre anni fa
Appuntamento alla conferenza su Joe Petrosino che si sarebbe tenuta il giorno dopo al John Jay College della City University di New York.
“Io sono di parola”, ci aveva detto Piero Grasso, sorridendo calorosamente al cronista dall’accento siciliano. Quando però giovedì sera, dopo la conferenza, il giudice è stato nuovamente circondato da collaboratori e diplomatici con già pronti ben altri appuntamenti, abbiamo pensato che non ce l’avremmo fatta. Lo attendavamo rassegnati ma quando erano sul punto di portarlo via, Grasso si è fermato: “Aspettate, datemi almeno dieci minuti, lo avevo promesso al giornalista di America Oggi”.
Uomo di legge e di parola, Grasso. Certo, avremmo anche sperato, il giorno della notizia sulla consegna del “papello” di Riina, di poter passare almeno mezz’ora con il capo dell’antimafia italiana, ma ci siamo accontentati di pochi minuti a quattrocchi col magistrato siciliano erede di Falcone e Borsellino.
Giudice Grasso, alla conferenza su Petrosino, l’altro Grasso che le stava accanto, George, il tosto vice capo della polizia di New York, ha detto che se i mafiosi volessero suicidarsi, dovrebbero solo provare a colpire un poliziotto o magistrato americano. In Italia invece…
«Dal 92 anche da noi è così».
Però per anni, da Petrosino in poi, gli uomini di legge sono caduti come birilli in Sicilia. Perché negli Usa la mafia non tocca i magistrati, mentre in Italia li può ammazzare?
«È solo un problema di convenienza. La mafia siciliana non commette un omicidio eccellente soltanto perché c’è un ostacolo. Deve diventare un ostacolo assolutamente insormontabile sotto altri punti di vista. Il problema è che la mafia per molto tempo poteva contare sulla mancanza di una reazione seria. Da un certo momento in poi non più. Ha dovuto eliminare Falcone e Borsellino, ma poi la repressione c’è stata. Tutti i mafiosi hanno ritenuto che questo sia stato un grave errore, perché ha acceso i riflettori e ha fatto scattare, finalmente, una repressione molto forte da parte dello Stato. Negli Stati Uniti probabilmente questo rapporto di utilità e convenienza si comprende, commettere un omicidio eccellente creerebbe delle reazioni che li metterebbe in grave difficoltà. Meglio curare gli affari senza farsi notare piuttosto che compiere delle azioni eclatanti. La strategia per tanti anni di ‘cosa nostra’ siciliana è stata quella voluta da Provenzano, di rimanere invisibili. Di non commettere reati che attirino l’attenzione…».
Prima di Falcone e Borsellino ci sono stati i delitti Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, Giuliano, Chinnici, Terranova… Perché non ci fu la reazione allora?
«La reazione ci fu, col maxiprocesso del’86. Con Buscetta grazie a Falcone. Purtroppo da noi i processi durano parecchio. Io sono stato giudice in quel processo, iniziato nell’86, finito in primo grado nell’88, diventata in Cassazione sentenza definitiva, dopo tre gradi di giudizio, soltanto nel gennaio del ’92».
Le stragi di Falcone e Borsellino avvengono pochi mesi dopo quelle sentenze definitive, ma lei nel suo libro va oltre il movente della vendetta mafiosa contro i magistrati del maxiprocesso. Certo, la mafia non dimentica mai come disse Buscetta, ma secondo lei non ci fu soltanto quello. Nella decisione delle stragi lei indica anche la necessità di fermare quello che Falcone avrebbe potuto ancora fare contro la mafia, e dopo di lui anche Borsellino…
«Indico anche un terzo movente, quello destabilizzante».
In Italia scoppiava Tangentopoli, succedevano grandi sconvolgimenti politici…
«Quindi la mafia non fa soltanto i propri interessi, ma anche di qualcun altro…»
Nel suo libro ci sono diversi passaggi in proposito. A pagina 84, ecco il suo ragionamento in base a quello che hanno riferito dei pentiti: “Questa affermazione, riferita da collaboratori di giustizia vicini a Bagarella, lascia intendere che Riina, prima delle stragi, avesse ricevuto promesse da parte di soggetti politici o vicini alla politica, come contropartita per l’eliminazione di Falcone. Una conferma a tale ipotesi si rinviene nelle dichiarazioni rese a Caltanissetta da Salvatore Cancemi, secondo il quale la decisione dell’omicidio di Giovanni Falcone fu presa dopo che Riina aveva avuto un incontro con persone importanti, estranee a ‘cosa nostra”. Perché viene ucciso Falcone?
«Ci sono questi tre moventi complessi. Il primo è per quello che aveva fatto. Il secondo per quello che poteva fare. E poi per l’effetto destabilizzante che non era proprio l’interesse di ‘cosa nostra’ ma di qualche altra entità…»
Lei nel libro li chiama poteri, gruppi. Ma ci spieghi meglio, chi sono questi poteri…
«Ma io… Purtroppo io non posso, la responsabilità penale è personale. Finché non si individuano delle persone, io non posso che rimanere generico».
Torniamo al rapporto tra Stato e mafia. Lei alla conferenza ha ricordato come il termine mafia abbia una derivazione letteraria. Ora, l’ascesa del potere della mafia nella società siciliana coincide con l’Unità d’Italia. Fin dalla seconda metà dell’Ottocento ci furono indagini e rapporti che indicarono e descrissero a fondo il fenomeno mafioso e il suo constante rapporto con la politica. È questo costante rapporto che da alla mafia questo suo nome, si chiama allora mafia proprio per quel rapporto iniziale avuto con la politica? Non si chiamerebbe soltanto criminalità organizzata se non ci fosse più quello?
«Guardi il problema non è terminologico. Il problema è che c’è questa organizzazione che non può vivere da sola. Diceva un collaboratore di giustizia: la mafia e la politica sono come i pesci e l’acqua».
Infatti è il boss Giuffré che lo dice nel suo libro, il mafioso collaboratore che sta al lavoro di Grasso come Buscetta a quello di Falcone…
«Significa che l’uno ha bisogno dell’altro. Perché come è spiegato nel libro, nei momenti preelettorali, la mafia ricerca il consenso. E lo trova già organizzato. Come scrivo nel libro, basta una passeggiata al centro del paese col capomafia, e tutti sanno che non c’è bisogno nemmeno di andarlo a chiedere per chi bisogna votare, tutti sanno chi è gradito alla mafia. Perché poi significa che io posso chiedere al capo mafia un favore, che poi quello si fa da intermediario con qualcun altro e quindi ottenere quello che io voglio. È questo rapporto di intermediazione, tra il bisogno e il favore fatto per soddisfare questo bisogno. Finché certi bisogni non verranno considerati dei diritti allora si creerà sempre questo discorso, che si da come favore qualcosa che spetta per poi richiedere come contraccambio a sua volta una fedeltà che diventà complicità. E quindi tu mantieni così il sistema».
Eppure questo sistema non si arriva a conoscerlo soltanto negli ultimi anni, con il lavoro di Falcone e grazie al pentito Buscetta. Basta leggere i lavori di storici come il britannico John Dickie o il siciliano Salvatore Lupo, con il suo libro sulla storia della mafia appena tradotto dalla Columbia University Press, per accorgersi che tutto quello che Buscetta racconta a Falcone, lo si sapeva già e pubblicamente alla fine dell’Ottocento…
«Scusi, letterariamente è una cosa, giudizialmente è un’altra cosa».
Giudice ma non si trattava solo di racconti letterari o di spartiti d’opera. Prendiamo come esempio storico quello di Diego Tajani, che prima di essere nel 1875 il deputato protagonista di un acceso dibattito in Parlamento a Roma – e di cui tutti i maggiori giornali dell’epoca scrissero – aveva servito come procuratore generale del re a Palermo, dal 1868 al 1872 e si era occupato di indagare le collusioni tra mafiosi, forze dell’ordine e politici. Tajani, grazie all’esperienza di inflessibile magistrato in Sicilia, terrà un discorso alla Camera in cui dirà che negare l’esistenza della mafia “significa negare il sole” e fino a puntare il dito in aula contro l’ex presidente del Consiglio Giovanni Lanza sospettato di complicità con la mafia. E poi Tajani giungeva ad una conclusione, 135 anni fa, che sembra pronuciata ieri: “La mafia che esiste in Sicilia non è pericolosa o invincibile di per sé. È pericolosa e invincibile perché è uno strumento di governo locale”. Perchè è poi rimasta per oltre un secolo da quei discorsi così invincibile la mafia, fino al sacrificio di Falcone e Borsellino? È ancora adesso uno strumento di governo o è finalmente tornata ad essere vincibile la mafia?
«Questo non lo so, bisogna confrontarsi con le prossime elezioni. C’è però il fatto che noi abbiamo dato dei colpi notevoli, abbiamo diminuito il potere delle organizzazioni mafiose, soprattutto in Sicilia. In Calabria è un’altra storia, lì è più forte perché non ha avuto ancora la repressione che c’è stata in Sicilia. Noi abbiamo quindi creato le precondizioni perché ci si possa scrollare di dosso questa presenza e questa forma di collusione e intimidazione. Se vuole la politica può fare l’interesse e il bene dei cittadini senza doversi necessariamente confrontare con una mafia potente».
Ma lei che segnali ha visto dalla politica? Si vuole finalmente rinunciare a certe collusioni? Qui non si tratta di colore politico, si sa quanto la mafia cerchi di mettersi d’accordo con chiunque si trovi al potere…
«Io mi occupo di segnali criminali, non di segnali politici».
Appena oggi arriva la notizia che sarebbe stato consegnato ai magistrati di Palermo il famoso “papello” di Riina per la trattativa con lo Stato a tempi delle stragi del ’92-93. Tutto ciò grazie alle rivelazioni di Massimo Ciancimino, figlio di Don Vito che di quel “papello” ne sarebbe stato non solo postino, ma persino “suggeritore”. Lei che ne pensa? Se lo aspettava che spuntasse il “papello” o è stata una sorpresa?
«Lo aspettavamo e da tanto tempo, finalmente è arrivato. Devo dire che parecchi dei contenuti li conoscevamo già. È certamente un documento che se autografo…».
Cosa potrebbe succedere se è autentico?
«È un fatto importante, perché sarebbe un documento».
Non dice di più Grasso sul papello, ormai trascinato via da chi lo deve portare ad un ennesimo evento, questa volta in New Jersey. Davanti all’ascensore, riusciamo a porgli un ultima domanda:
Giudice lei a New York ha detto che per sconfiggere la mafia serve una stampa libera e una magistratura indipendente. Vede pericoli arrivare in Italia su questo fronte?
«Mi chiede di fare un discorso politico, che non posso fare».
Le chiedo di confermare o meno: senza la stampa libera e una magistratura indipendente, vince la mafia?
«In qualsiasi Paese vale questa regola. La democrazia si misura ovunque su quanta libertà si riesce ad avere, quindi sulla stampa completamente libera e un pubblico ministero che riesce a fare indagini nei confronti di chiunque».