Trent'anni fa valutavo seriamente di andar via dalla sicilia. Oggi non vorrei abitare in altro posto che a palermo. Quel che resta della dolente bellezza di questa città, a poco a poco mi ha conquistato. C'è tanta gente semplice, di buon cuore, e questo è il frutto migliore dello spirito del cattolicesimo, tanto fortemente radicato nella storia dell'isola.
UnIsola senza Forconi (o quasi)
Trent’anni fa valutavo seriamente di andar via dalla Sicilia. Oggi non vorrei abitare in altro posto che a Palermo. Quel che resta della dolente bellezza di questa città, a poco a poco mi ha conquistato. C’è tanta gente semplice, di buon cuore, e questo è il frutto migliore dello spirito del Cattolicesimo, tanto fortemente radicato nella storia dell’Isola.
Non occorrono analisi particolarmente complesse per scoprire che la vera palla al piede della Sicilia è la sua classe dirigente. In tutte le sue componenti: politiche, burocratiche, accademiche, imprenditoriali. Le magagne della classe dirigente, a loro volta, derivano dalla disperante inadeguatezza della cultura politica. Fenomeno questo che riguarda la popolazione nel suo insieme e non soltanto le sedicenti élites.
Il primo chiaro sintomo d’inadeguatezza è l’incapacità di pesare le parole. Qualunque aspirante capo-popolo non si accontenterebbe mai di usare parole banali come “protesta”, o “sciopero”: no, bisogna partire, come minimo, da “rivoluzione”. I politici di professione, quelli navigati, quelli tanto maturi che è appropriato definirli fradici, per sentirsi in sintonia con il popolo “rivoluzionario” devono fare a gara fra loro in fatto di estremismo verbale. Chi le spara più grosse, vince.
L’odierno Movimento dei Forconi mi ha fatto tornare alla mente il movimento degli “abusivi per necessità”. Correva l’anno 1985 ed il Parlamento nazionale approvò la legge 28 febbraio 1985, n. 47, in materia di condono edilizio. Rientrando nelle tipologie previste dalla legge statale, quanti si trovavano in abitazioni abusive potevano sanare la propria situazione pagando un’oblazione. Anche allora lo Stato cercava di far cassa, rinunciando all’idea di uno sviluppo urbanistico ordinato. Mano a mano che si avvicinavano i tempi stabiliti per il pagamento dell’oblazione, crebbe nel Meridione d’Italia e soprattutto in Sicilia un forte movimento popolare di protesta. Il fatto strano è che a guidare la protesta fossero i Sindaci dei Comuni più interessati dal fenomeno dello sviluppo edilizio senza controllo.
Un osservatore esterno, un marziano di passaggio, avrebbe potuto chiedere a quei Sindaci: scusate, ma non dovreste prendervela in primo luogo con voi stessi se le città che amministrate sono del tutto prive di piani regolatori, ovvero se gli strumenti urbanistici vigenti, laddove esistenti, non sono stati aggiornati per tempo? Il fatto è che l’assenza di pianificazione urbanistica vi ha fatto comodo: così potevate coltivare amici, clienti ed elettori, dicendo che comprendevate le oro esigenze e facevate finta di non vedere quando costruivano. Nel contempo, avevate un’arma in mano contro seccatori ed avversari politici, nei cui confronti eravate pronti a richiamare il rigore della legge se si fossero permessi di movimentare un mattone.
Almeno un marziano ci fu: Giorgio Bocca. Il quale allora scrisse una serie di articoli, facendosi beffe, in particolare, del Sindaco di un grande Comune siciliano, Vittoria, in provincia di Ragusa. Quel Sindaco era del Pci, acronimo di Partito comunista italiano. Nel febbraio del 1986 centinaia di Sindaci, avvolti nelle loro fasce tricolori, fecero una “marcia su Roma”, per riaffermare che l’oblazione poteva essere pagata da Roma in su. Certamente non la dovevano pagare meridionali e siciliani, tutti “abusivi per necessità”.
Io allora ero un trentenne con un po’ di cultura libresca e pochissima esperienza di pratica di vita. Ricordo che rimasi profondamente colpito dalla morte di un funzionario dello Stato, Gianfranco Vitocolonna, già Prefetto di Trapani e Commissario straordinario del Comune di Palermo. Gli abusivi erano temperamentosi, come gli attuali evocatori di forconi. Mettevano i camions di traverso per bloccare strade ed autostrade. Si dilettavano a rovesciare cassonetti pieni di rifiuti da cavalcavia e ponti di strade ed autostrade. La macchina di servizio che accompagnava Vitocolonna a Palermo andò a schiantarsi contro un Tir fermo. Sembra che l’incidente sia stato provocato dalla presenza di olio sull’asfalto. Era il mese di marzo del 1986. Non conoscevo il prefetto Vitocolonna; ma la sua fine mi sembrò una metafora. Il funzionario di uno Stato debole muore, mentre l’anarchia dilaga.
Vengo all’attualità. Facendo qualche ricerca via Internet ho letto volantini recanti la sigla “Forza d’urto”. E’ comprensibile che autotrasportatori, produttori agricoli, pescatori, protestino contro il rincaro del costo del carburante, che inevitabilmente determina l’aumento del prezzo del prodotto che alla fine viene immesso nel mercato. In una condizione di oggettiva marginalità geografica, aggravata dall’insularità.
Tuttavia, quando si denuncia l’insufficienza della rete delle infrastrutture (strade, autostrade, ferrovie, porti, aeroporti), si dovrebbe avere consapevolezza che è troppo comodo scaricare ogni colpa sullo Stato italiano, inteso come entità esterna ed ostile. Non dispone la Sicilia di una specialissima autonomia? Non è forse vero che l’Assemblea regionale siciliana opera, senza soluzione di continuità, dal 1947, quando fu eletta, prima che si tenessero le elezioni delle Camere del Parlamento repubblicano? Non è forse vero che la Sicilia, dal 1947 ad oggi, ha espresso propri governi regionali e propri Presidenti della Regione?
Posto che le infrastrutture sono la precondizione dello sviluppo, a che cosa è servita la specialissima autonomia se dopo sessantaquattro anni di politica regionale si lamenta ancora un troppo penalizzante deficit infrastrutturale? Non citerò il nome di quel politico regionale che il 19 gennaio 2012 ha scritto nel suo blog: La buona politica non può e non deve restare sorda al grido di dolore che in queste ore si alza, fiero, indignato e dignitoso da ogni angolo della Sicilia. E noi ci siamo! Grande Sud è al fianco dei trasportatori, degli agricoltori, dei pescatori e di tutti quei siciliani che ne hanno le tasche piene e dicono e gridano basta!”.
Il grido di dolore fa venire in mente re Vittorio Emanuele II. Ma questo politico siciliano che, come tanti, troppi, suoi colleghi, oggi soffia sul fuoco, non era lo stesso che rivendicò a sé stesso il merito di avere conquistato per la propria coalizione politica sessantuno collegi elettorali uninominali (la totalità, fra Camera e Senato) in Sicilia nelle elezioni politiche del maggio 2001? Non è stato, per anni, il leader del partito di maggioranza relativa nell’Isola? Non ha designato lui il Sindaco del Comune di Palermo, ora dimissionario? Non ha fatto parte, fino a due mesi fa, del Governo della Repubblica italiana, con la non trascurabile carica di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio?
Tra le sigle della protesta, spicca quella degli “Studenti siciliani in lotta”. Gli studenti, giustamente, lamentano l’incertezza del futuro, la difficoltà di trovare lavoro nella propria terra. I loro problemi sono gli stessi dei loro coetanei in tutto il mondo. Il tragico errore è quello di pensare che per trovar riparo basti mettersi dietro una bandiera con la Trinacria. La loro protesta avrebbe molto più senso se pretendessero un migliore funzionamento delle università siciliane.
A Palermo, Catania, Messina, non mancano i buoni professori che ancora si preoccupano di formare i propri studenti; che li seguono effettivamente, non soltanto in occasione delle lezioni, ma, ad esempio, anche indirizzandoli nella preparazione delle tesi di laurea. Ci sono però tanti professori la cui principale attività è quella di ricercare il rapporto con il ceto politico. I loro titoli accademici ed il loro prestigio, vero o presunto, sono messi a servizio della politica che conta. I docenti ne traggono vantaggio personale: nomine, consulenze, ogni possibile incarico; il tutto, naturalmente, non gratis. Di conseguenza, questi professori “di successo” hanno troppo da fare per essere presenti a lezione.
Per loro, gli studenti sono una noiosa seccatura. Gli esami spesso sono demandati a non meglio precisati cultori della materia, i quali nulla sanno dei contenuti effettivi delle lezioni e meno che mai dei programmi delle materie (il passaggio dai vecchi corsi di laurea al modulo tre più due, seguìto, in tempi più recenti, dalla opzione per i corsi di laurea magistrali, ha determinato non poca confusione nella delimitazione dei programmi delle materie). Gli esaminatori sono preposti al compito di tagliare le teste, di sfrondare la pletora di seccatori (gli studenti). Non hanno alcuna cortesia. Salvo trovarsi davanti uno studente con un cognome noto fra la gente che conta. Allora, il trenta è molto probabile, con gli immancabili saluti a papà.
A fronte della situazione descritta, dire che bisogna premiare il merito e contrastare il nepotismo è una ovvietà. Ci potrebbero essere richieste molto più concrete. In nessun caso dovrebbe essere tollerato che:
a) non si tenga lezione perché una stessa aula è stata prenotata contemporaneamente per più materie;
b) non si tenga lezione perché il professore ha avuto un impegno improvviso (ossia,
fa i suoi comodi);
c) gli esami vengano rimandati, senza che gli studenti siano stati informati prima con congruo preavviso. Si tratta di ripristinare le condizioni minime di organizzazione e di efficienza, affinché l’Università sia e venga avvertita dai ragazzi come una cosa seria.
Ci sono città, come ad esempio Bologna, in cui l’Università è una risorsa fondamentale dell’economia locale. Gli studenti fuori sede determinano un fiorente mercato delle locazioni; così come alimentano ogni tipo di attività economica e commerciale: dai negozi di alimentari, alle trattorie, alle lavanderie, ai cinema. Perché l’Università sia attrattiva, organizzazione ed efficienza sono curati nel dettaglio. Professori ordinari, “di chiara fama”, rispondono personalmente ai messaggi di posta elettronica inviati loro dagli studenti. Ogni piccola variazione nel calendario delle lezioni, delle esercitazioni e degli esami, viene comunicato con largo anticipo. Questa deve diventare la normalità pure da noi.
Passo alle conclusioni:
1) secondo me, non ha mai avuto senso pensare che la Sicilia potesse procedere e salvarsi da sola; tanto più non ha senso nella fase storica in cui l’Unione Europea
e l’Italia sono in grave sofferenza per la crisi economica;
2) ci sono forze politiche (come la Lega Nord e l’estrema Destra) chepuntano
tutto sulla lotta politica contro il Governo Monti. Queste forze tendono ad amplificare la protesta siciliana per strumentalizzarla, ma i Siciliani sono
abbastanza intelligenti per non lasciarsi strumentalizzare da altri;
3) alcune argomentazioni che oggi hanno libero corso non hanno alcun
fondamento razionale e sono puro delirio: come la richiesta che una ipotetica banca
siciliana cominci a battere moneta;
4) oggi come ieri, i principali nemici della Sicilia sono i demagoghi senza
scrupoli che vellicano l’orgoglio insulare; tutte le persone di buona volontà
devono quindi spendersi per chiarire, dinanzi all’opinione pubblica dell’Isola, quali
obiettivi siano possibili e quali del tutto velleitari;
5) ogni rivoluzione nasce dal cambiamento di mentalità: in Sicilia serve l’impegno
personale, a tutti i livelli, per far funzionare le cose.