La destra e i disastri di Palermo

Palermo è una città poco propensa alle innovazioni, si adagia quasi sempre sul sicuro (megghiu ‘u tintu canusciutu ca ‘u buonu a canusciri) ed è dominata, politicamente parlando, dall’egemonia conservatrice delle periferie, dove il degrado è maggiore. Le zone alte della città vivono in un loro mondo chiuso, beneficiano di qualche piccolo privilegio (circolo del tennis e altre sveghi) e non hanno alcuna cura del bene comune. Altre zone sono state e restano i luoghi del radicamento storico delle grandi famiglie mafiose e pertanto sono inagibili all’uso collettivo, perché debbono restare enclavi al riparo da infiltrazioni di civiltà e di innovazione.
Quest’articolazione socio-culturale pone la città negli ultimi posti delle graduatorie nazionali di vivibilità. E a gestirla, negli ultimi 60 anni, sono state forze della conservazione. Gli ultimi 10 anni, poi, sono stati contrassegnati dall’inefficienza, dall’inettitudine, dall’arretratezza e dallo spreco. Questi 10 anni sono stati quelli nei quali la destra storica della città è stata al potere con il suo portabandiera, Diego Cammarata. Le sue dimissioni anticipate non sono altro che una fuga di fronte al dissesto finanziario del Comune (provocato dallo stesso centrodestra). Il sindaco uscente ha mollato perché non avrebbe trovato solidarietà alcuna, né nel suo stesso partito, né nello schieramento inizialmente alleato. Definiamo il tutto in politichese: la destra palermitana davanti alla prova del governo della città ha fallito e si è pure sconquassata.
Il botta e risposta finale tra i rappresentanti di due destre – quella dell presidente della Regione Raffaele Lombardo da una parte e quella di Diego Cammarata dall’altra – ha fatto da corollario a tutta quanta la vicenda politica e vi ha messo il suggello definitivo. Cammarata, che a giustificazione del suo fallimento accusa Lombardo di non averlo aiutato finanziariamente e l’altro che replica sulle pessime prestazioni gestionali del sindaco dimissionario quale peggiore amministratore nella storia della città di Palermo. Un quadretto niente male, quasi fantasmagorico!
Il presidente della Regione, da parte sua, nel tentativo di recuperare quanto è possibile della frastornata destra palermitana, propone a giorni alterni candidato sindaco di Palermo per il suo movimento l’assessore regionale, Caterina Chinnici, poi l’altro assessore regionale Massimo Russo ed oggi il rettore dell’ateneo palermitano, professore Roberto Lagalla. Ciò a conferma della chiarezza di idee e di propositi che caratterizzano la visione strategica dell’onorevole Raffaele Lombardo.
Ma gli altri esponenti del centrodestra palermitano e siciliano dove sono? In quale recesso si sono nascosti? Dov’è finito il taumaturgo Angelino Alfano? Qual è la sua proposta per tirare fuori la città di Palermo dal pantano dove l’ha gettata il suo amico Diego Cammarata? Dov’è Gianfranco Miccichè, che ci doveva stupire con la sindacatura Cammarata? E il presidente del Senato, Renato Schifani, diventato protettori di Cammarata (dopo il ‘divorzio’ tra lo stesso ormai ex sindaco di Palermo e Miccichè) ha perso, forse, il dono della parola?
Tutti gli esponenti del centrodesta hanno lasciato solo Cammarata, quasi non avessero condiviso con lui una gestione della città durata dieci anni. Hanno preso le distanze e non hanno alcuna intenzione di metterci la faccia.
C’è di più nella scomparsa dalla scena di cotanto ‘parterre’. Esiste una circostanza più congrua: dopo il prosciugamento delle risorse finanziarie del Comune di Palermo, la destre palermitana, politica e non, non ha alcun interesse a candidarsi alla gestione amministrativa della città, perché – almeno per i prossimi cinque anni – non ci sarà nulla da spolpare. E questi signori, che non conoscono cosa sia l’interesse pubblico, quando non hanno ‘casse’ pubbliche da ‘svaligiare’, non si fanno nemmeno vedere.

 


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Palermo è una città poco propensa alle innovazioni, si adagia quasi sempre sul sicuro (megghiu ‘u tintu canusciutu ca ‘u buonu a canusciri) ed è dominata, politicamente parlando, dall’egemonia conservatrice delle periferie, dove il degrado è maggiore. Le zone alte della città vivono in un loro mondo chiuso, beneficiano di qualche piccolo privilegio (circolo del tennis e altre sveghi) e non hanno alcuna cura del bene comune. Altre zone sono state e restano i luoghi del radicamento storico delle grandi famiglie mafiose e pertanto sono inagibili all’uso collettivo, perché debbono restare enclavi al riparo da infiltrazioni di civiltà e di innovazione.

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