A rivederci, Milan

Dando per assodato che quest’’anno, ormai, è andata come è andata, al magro bilancio di stagione aggiungiamo, stasera, un altro preventivabile dispiacere. E cioè la conferma che, nelle otto stagioni di serie A che abbiamo messo insieme, solo un avversario, tra quelli che contano, è riuscito sempre, pervicacemente, a negarci la gioia di batterlo. Che poi significa – trattandosi di una di quelle squadre con la maglia a strisce, di quelle che vantano un tifo ampiamente globalizzato e del tutto indipendente dall’’appartenenza geografica –negarci la gioia di veder rosicare un certo numero di amici e conoscenti. Nonché quei signori che allo stadio, in certe partite, vedi comparire silenziosi e sornioni tutt’’intorno al posto dove tu abitualmente siedi. Quelli che seguono il gioco sottovoce, o scambiandosi occhiate furtive con gli amici che li accompagnano. E non fanno che masticare – silenziosi e colpevoli – la speranza di veder perdere il Catania contro il loro Milan, la loro Inter, la loro Juventus.

Tutte le grandi del calcio italiano, una volta almeno, si sono in questi anni inchinate al generoso furore e alla coraggiosa follia dei rossazzurri. Tutte, tranne il Milan. Che questa sera si è sbarazzato di noi con un economico uno a zero, trovando il vantaggio con un tiro da distanza siderale di Montolivo e, da quel momento, amministrando il risultato senza troppo patire.

Perfino la Juventus – che pure, ed è questo un altro motivo di rammarico, non c’’è mai riuscito di vedere uscire sconfitta dal Massimino –- perfino la Juventus, dicevo, ha dovuto arrendersi una volta almeno. Quel 20 dicembre 2009 in cui, con Sinisa Mihajlovic in panchina, siamo andati imprevedibilmente a batterla a casa sua, grazie a un glorioso contropiede a quattro minuti dalla fine, concluso magistralmente da Mariano Izco: giocatore che fino a quel momento mai aveva fatto gol in campionato; e che molto raramente si sarebbe ripetuto anche dopo quel giorno.

Dell’Inter, poi, non parliamo nemmeno. Sono state due, in questi anni, le sconfitte dei nerazzurri contro il Catania. E la prima, soprattutto, non la dimenticheremo mai. Era il 2010: l’’anno in cui la squadra di Mourinho avrebbe messo in bacheca il suo tanto decantato triplete (campionato, coppa Italia e Champions League). Ma a noi bastò un minuto, un minuto solo, per costringere l’undici nerazzurro a inchinarsi. A pagare il suo conto aperto con la legge del Massimino.

Si giocava in un insolito venerdì sera, freddo e lavato da una pioggia inquieta. Era il trentacinquesimo della ripresa. E stavamo sull’’uno a uno. Nell’’Inter era appena entrato Muntari. Il quale, allontanatosi di pochi passi dalla panchina, subito commise un vistoso fallo al limite dell’’area determinando una punizione per il Catania e beccandosi un meritato cartellino giallo. A battere la punizione andò Peppe Mascara. Mirò all’’angolo alto, con una parabola tesa a scavalcare la barriera. Ma in quella barriera c’era ancora Muntari. Che, per dare un logico seguito al fallo di un attimo prima, saltò a deviare platealmente il pallone con il braccio. L’’arbitro fischiò il rigore e, inevitabilmente, dovette espellere Muntari. La cui fulminea somma di ammonizioni, immagino, deve essere ancora scritta nel Guinnes dei primati.

Peppe Mascara da Caltagirone si trovò lì, solo sotto la pioggia, a undici metri da Julio Cesar, il forte portiere dell’Inter e della nazionale brasiliana. Non ebbe certo paura, Peppe, a tirare quel rigore. Lo batté anzi con la stessa lucida follia con cui ci aveva regalato altri momenti di delirante gioia: come ad esempio il gol al volo da centrocampo nel derby vinto per 4 a 0 sul campo del Palermo. Lo batté dunque, quel rigore, esattamente nel modo in cui è severamente vietato battere i rigori: irridendo il portiere avversario con un lentissimo, spavaldo e crudele cucchiaio: una palla destinata a spegnersi, placida e inesorabile, al centro della porta; mentre il portiere si buttava veloce su un fianco, nel tentativo di indovinare una traiettoria più rapida ma meno improbabile.

Finì tre a uno quella partita, poiché poi venne anche un meraviglioso gol in contropiede di Martinez. E non sarebbe stata, dicevo, l’’unica vittoria del Catania contro i nerazzurri: un’’altra, con il punteggio di due a uno, sarebbe venuta il 15 ottobre 2011, sotto la guida di Vincenzo Montella. Sarebbe stata però, quella del cucchiaio di Mascara, la vittoria più bella, la meno dimenticabile. Una vittoria che, a lungo, ci avrebbe fatto andare allo stadio di buon umore ogni volta che il cielo minacciava pioggia. Una vittoria che –- oggi, che non possiamo far altro che spolverare i gioielli degli anni passati –- ci appare, probabilmente, come il pezzo più pregiato dell’intera collezione.

Anche la Roma, poi, è caduta a Catania. La Roma: quella squadra che, al primo anno di serie A, ci aveva umiliato sul suo campo con un debilitante sette a zero. Ce n’’è voluta, è vero: ma alla fine ci siamo rifatti, e non una sola volta. Ricordo una partita del 2011 decisa da un gol di Gomez, al minuto 95, che distrusse i sogni giallorossi di Champions League. Sulla nostra panchina c’’era Simeone. Ricordo anche la vittoria dell’anno scorso, con Maran, ancora con un gol di Gomez. Ma la giornata più inebriante fu certamente quella del 21 dicembre 2008, la stagione di Walter Zenga: quando battemmo i giallorossi mandando in rete uno dopo l’altro il capitano Baiocco (un altro che non segnava mai) e, per due volte nella stessa partita, anche il simpatico ma non proprio immarcabile Morimoto. E resistendo poi, nel finale, alla rimonta giallorossa, che si sarebbe fermata sul tre a due per noi.

Ma contro il Milan, niente. Il bilancio di questi otto anni registra solo sei pareggi e dieci sconfitte. Registra delusioni brucianti, come la partita che, nel novembre 2009 (quando in panchina avevamo ancora lo sfortunatissimo Atzori), ci vide uscire sconfitti in casa per due a zero, dopo aver mantenuto un dignitoso zero a zero fino al minuto 93. E registra vittorie mancate quasi altrettanto amare: come quella dell’’aprile successivo, quando, con Mihajlovic subentrato in panchina, chiudemmo a San Siro il primo tempo in vantaggio di due reti, con gol di Maxi Lopez e Ricchiuti; ma poi ci facemmo ingenuamente rimontare, concedendo agli avversari una doppietta di Borriello. E infine, registra anche epiche maratone di calcio parlato: come quella che, nell’’aprile 2012, vide protagonista Adriano Galliani. Il quale, non a torto indignato perché, poche settimane prima, alla sua squadra era stato negato un gol fantasma contro la Juve, pensò bene di costruire uno scandalo di portata mondiale, reclamando un altro gol fantasma -– peraltro assai difficile da documentare –- che sarebbe stato immortalato, non si sa come, dal suo onnipotente cellulare. Sono passati esattamente due anni, da quando Galliani si agitava per i due punti persi al Massimino. A ripensarci oggi, purtroppo, pare un secolo fa.

Va bene: si potrebbe sempre dire che, contro i rossoneri, abbiamo comunque vinto, per giunta a San Siro. Eravamo nel dicembre 2007, segnarono Spinesi e Mascara. Ma era Coppa Italia. E lo sappiamo tutti che non conta, che il campionato è un’altra cosa. La vittoria contro il Milan, dunque, continua a mancarci. E a me manca, aggiungo, anche per via di un altro, lontano ricordo. Che risale al tempo della nostra ultima retrocessione in serie B. Un tempo lontano. Un tempo in cui il calcio, io, lo guardavo ancora con occhi di bambino.

Era il 1984. Il Catania si trovava, tutto solo, in fondo alla classifica, più o meno come adesso. Solo che, quell’’anno, s’’era capito fin dall’’inizio che la serie A, per i rossazzurri, sarebbe rimasta un episodio. Catania e Milan stavano sull’’1 a 1 fino a sette minuti dalla fine. Fu allora che da qualche parte piovve un pallone sul petto di Aldo Cantarutti. Il nostro centravanti teneva le spalle rivolte alla porta. Colpì il pallone una prima volta con il sinistro, per aver il tempo di pensare a cosa farne. Poi lo colpì una seconda volta, con decisione, lanciandolo in alto verso il cielo. E infine ci si lanciò lui, verso il cielo, con tutto il corpo, sospendendo per un momento le leggi della gravità, ed eseguendo la più perfetta rovesciata che io ricordi d’aver mai visto. Vicino a lui c’’era Franco Baresi, il difensore che sarebbe presto diventato il miglior libero del mondo. Ma che quel giorno poté solo restare, imbambolato e impotente, a osservare quel gesto di devastante bellezza. Così come immobile rimase il portiere del Milan, Piotti, che si scoprì all’’improvviso infinitamente piccolo, sotto quel pallone che si infilava nell’’angolo alto alla sua destra.

Ma l’’arbitro di quella partita, che portava l’antifrastico cognome di Benedetti, aveva già deciso che il Catania non potesse, in nessun caso, battere il Milan. E annullò dunque quel gol, senza una ragione al mondo. Se non forse quella di impartire un’’amara lezione di vita al bambino che ero. Di fargli capire che nel calcio —- e del resto non solo nel calcio -— tutte le squadre sono uguali, ma alcune sono molto più uguali delle altre.

Finì malissimo, quella partita: con un’’invasione di campo, la prima di una serie di intemperanze che avrebbero a lungo esiliato il Catania dal suo stadio. E fu ben magra consolazione il fatto che Benedetti, a seguito di quello scempio, si sia visto costretto a cambiare precipitosamente mestiere.

Quel gol di Cantarutti, da allora, non mi è più uscito di mente. E da allora mi porto dentro, con i rimpianti di quella stagione sbiadita, l’’ansia non ancora placata di rimettere un po’’ d’’ordine nei miei conti. Di restituire un giorno, a quel bambino, il sorriso che il signor Benedetti gli ha rubato. Di poterla urlare finalmente tutta, la gioia del gol più bello che sia mai stato segnato a Catania. E poi di sfogliare, il lunedì successivo, un qualunque quotidiano sportivo. Per poter leggere, nel tabellino di Catania-Milan -– con lo sguardo appannato del bambino che non sono più -– il nome del giocatore che ha deciso la partita. Che non potrà mai essere altri che Aldo Cantarutti.

Trent’anni sono passati. E non son bastati gli ultimi otto, a ridarmi indietro quel pezzo di infanzia. Ma pazienza: ad aspettare, come ogni tifoso rossazzurro, io ci sono abituato. Prego solo il dio del calcio che, questa volta, non la tiri troppo per le lunghe. E che mi offra presto l’’occasione di fare a calci con il diavolo. In serie A, s’intende. Altrimenti non vale.

A rivederci, Milan.


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