Nuovo sequestro per la famiglia Bosco, noti ristoratori di Catania. Nell’ambito dell’operazione che ha già condotto all’arresto di diversi componenti della famiglia, accusati di gestire uno dei più grandi giri di usura della città e che ha portato a porre i sigilli a un impero economico, il tribunale del Riesame etneo ha disposto ulteriori provvedimenti.
Viene affidato a un amministratore giudiziario un patrimonio di 15 milioni di euro, fatto di 27 immobili, molti dei quali si trovano in zone residenziali di Catania, dieci tra auto, moto e scooter, e cinque società tra cui quelle che gestiscono i tre supermercati dei fratelli Bosco. Il nuovo amministratore è già stato nominato da Tribunale e garantirà la prosecuzione e il regolare svolgimento delle attività commerciali. Tra i destinatari del provvedimento odierno c’è anche Antonino Cuntrò, 57 anni, che gestiva, attraverso la società Gusto gusto, alcune attività.
L’arresto di diversi membri della famiglia Bosco era scattato a febbraio del 2014. Tra questi, il capostipite Giuseppe Bosco, i figli Mario, Antonino e Salvatore, e i nipoti Giuseppe e Sebastiano. In quell’occasione furono sequestrati preventivamente quasi 400mila euro, per lo più ritrovati in contanti nella cassaforte di uno dei supermercati cittadini gestiti dai Bosco. Circa un mese dopo, a marzo 2014, venivano messi i sigilli a un patrimonio stimato in 15 milioni di euro. Misura che viene confermata adesso con qualche modifica: ci sono tre immobili in più e sei società in meno. «Il sequestro ha riguardato solo quelle attive che gestiscono i tre supermercati Simply Bosco, rosticcerie, bar e attività di catering, le altre sono di minore importanza». precisa il capitano Simone Vastano, della Guardia di finanza di Catania, che ha eseguito le misure.
I metodi con cui i Bosco riscuotevano i prestiti sono emersi nel processo per gli imputati che hanno scelto il rito abbreviato. Tra le fonti di prova anche le denunce di alcuni imprenditori vittime di tassi d’interesse vertiginosi che sarebbero arrivati fino al 140 per cento con quote mensili che variavano dall’otto al dieci per cento. Gli imputati, ai quali non viene contestata l’appartenenza a Cosa nostra catanese, per riscuotere le somme dei prestiti concessi rivendicavano però conoscenze mafiose con l’obiettivo di intimidire i creditori.
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