«Noi andiamo a Ognina, che io so dove andare e ce lo lasciamo. E poi lui lo entra». Un uomo misterioso ma con entrature di un certo tipo nell’ambiente carcerario. Contatti talmente fidati da essere in grado di introdurre, a quanto pare senza problemi, i cellullari all’interno della casa circondariale di piazza Lanza a Catania. […]
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Dall’uomo dei cellulari al bacio alla cocaina: i segreti (illegali) del carcere di piazza Lanza
«Noi andiamo a Ognina, che io so dove andare e ce lo lasciamo. E poi lui lo entra». Un uomo misterioso ma con entrature di un certo tipo nell’ambiente carcerario. Contatti talmente fidati da essere in grado di introdurre, a quanto pare senza problemi, i cellullari all’interno della casa circondariale di piazza Lanza a Catania. A parlare di «lui», il 25 febbraio dello scorso anno, sono due donne. Vengono intercettate dai carabinieri, nell’ambito dell’inchiesta Caronte, mentre si trovano all’interno di una macchina, ferma in sosta nel quartiere Zia Lisa del capoluogo etneo. Le due donne condividono il fatto di avere i propri compagni dietro le sbarre. Giovanna Privitera è la compagna di Antonio Zammataro, noto alle forze dell’ordine per i suoi precedenti legati al mondo della droga. Il marito dell’altra donna, invece, è stato arrestato insieme al fratello circa una settimana prima rispetto a quando avviene il dialogo sui cellulari. In questo caso, con l’accusa di avere rubato delle barche nel porto di Riposto, nel Catanese.
«Lui mi ha chiamato ieri sera: mi ha detto che era da venti minuti che avevano finito di mangiare», spiega la donna facendo riferimento al fatto di essere riuscita a sentire il marito detenuto. Il tema centrale della discussione è proprio la possibilità di riuscire a introdurre i cellulari in carcere. Da dentro sarebbe arrivata una richiesta precisa: «Lui vuole entrato quello con la fotocamera. Gli ho detto “ma quello con la fotocamera come te lo entriamo?”». Perplessità alla quale Privitera sarebbe stato in grado di rispondere immediatamente indicando di dovere dare il telefono «all’assistenza». Il riferimento, nonostante nelle intercettazioni venga riportato con quella precisa parola, non sembra essere però a un’attività che ripara telefoni ma, più probabilmente, a qualche agente della polizia penitenziaria. Dettaglio che emerge subito dopo, nel proseguo della conversazione: «C’è l’assistenza corrotto! Capito?». Nessun nome ma una conoscenza fidata, tanto che Privitera spiega all’altra donna di essersi avvalso dei suoi servizi già in passato: «Ad Antonio – spiega – io ho entrato dieci telefoni di questi. Che fine hanno fatto? Che poi a lui l’hanno spostato».
Risolto il problema del telefono, c’è quello delle sim. Anche su questo punto le due donne sembrano abbastanza ferrate. «Mio marito mi ha detto: “la scheda non ti preoccupare, che me la compro qua dentro stesso“». Privitera però consiglia di consegnare al marito il pacchetto completo: «Gli puoi dare anche la scheda. Io ci davo scheda, telefono, tutte cose». Sulle sim però sarebbe stato necessario adottare una precauzione fondamentale per quanto riguarda l’intestazione anonima. «Ci vuole la Lycamobile ma dove spacchio si deve comprare?». Privitera ha una risposta per ogni domanda: «Dai cinesi – spiega alla donna – dai neri. A Giarre: dieci euro… e cinque la ricarica».
L’asse tra l’esterno e il carcere nell’inchiesta ha anche un capitolo specifico per quanto riguarda la droga. Perché, oltre ai telefonini, Privitera avrebbe avuto una certa dimestichezza con lo stupefacente da consegnare al compagno detenuto. In un dialogo intercettato con la figlia, la donna spiega di volere occultare la cocaina nella mola, grazie a una gomma da masticare. Operazione che, a quanto pare, sarebbe andata a buon fine come la stessa indagata racconta – senza sapere di essere intercettata – alle amiche durante una sosta nell’area di servizio di Aci Sant’Antonio, nel Catanese: «L’ho messa con la gomma sotto la lingua. Se il cane (antidroga, ndr) mi viene addosso a inghiottirla… pazienza». Ma la cocaina, secondo la ricostruzione degli investigatori, non sarebbe servita a Zammataro, cioè il compagno della donna, per uso personale. «L’unica finalità della ricezione della sostanza – si legge nelle carte dell’inchiesta – era quella di cederla, a propria volta, a terze persone».