Università, come si cambia per non morire

“Università, cosa e come cambiare?” Questo era il titolo della conferenza che si è tenuta ieri sera, a partire dalle 17.30, nell’auditorium Giancarlo De Carlo dell’ex Monastero dei Benedettini.
Platea povera per un evento che avrebbe dovuto interessare moltissime persone.

Da quarant’anni a questa parte, mai come negli ultimi mesi il futuro dell’Università è stato argomento di conversazione, quando non di acceso dibattito. Ieri, i professori Alessandro Corbino, Antonio Pioletti ed Elita Schillaci, gli onorevoli Luciano Modica e Fabio Granata, in presenza del Preside di Lingue e Letterature straniere Nunzio Famoso e del Magnifico Rettore Antonino Recca, si sono espressi sulla riforma Gelmini e non solo, analizzando, ognuno a suo modo, i pregi e i difetti del Sistema Universitario Italiano.
L’introduzione dell’evento è stata affidata a Nunzio Famoso, che ha assolto anche il ruolo di moderatore.
«L’Università di Catania», ha detto «è stata alfiere nella scacchiera del dialogo, poiché tutti hanno potuto manifestare liberamente la loro opinione. Abbiamo assistito, per tanto tempo, ad un immeritato attacco all’Università. Produciamo formazione, creiamo la futura classe dirigente del Paese, e non possiamo farlo con un fucile puntato addosso da parte delle istituzioni. Le cose devono cambiare, in meglio. In modo espansivo, non recessivo.»

Il via alla discussione è stato dato dal prof. Corbino, il quale ha preferito non spendere troppe parole sull’inefficienza del sistema accademico, centrando l’attenzione sugli aspetti macroscopici in cui tale inefficienza si manifesta, tra i quali spiccano l’occupazione dei laureati, non sostenuta, e la qualità della ricerca espressa negli atenei d’Italia, ancora bassa.
Corbino ha sostenuto che sono tre i valori essenziali su cui una riforma dovrebbe basarsi: « In primo luogo, l’Università deve restare aperta e di massa: nel 1960, solo il 7,3% dei diciannovenni accedeva al percorso universitario. Nel 2007, la percentuale è del 53,6%. Sono dati che fanno riflettere. In secondo luogo, l’Università deve essere un’istituzione a fortissima impronta pubblica, e in quanto tale deve rimanere un punto fondamentale di riferimento, per ragioni che riguardano sia la nostra storia europea, sia la ricerca, che solo in seno ad un’istituzione pubblica può essere realmente libera. In ultimo, l’attività dell’Università dev’essere improntata ed incentrata sul principio della responsabilità.»

La concertazione tra le forze politiche pare essere indispensabile per ottenere dei risultati nel campo dell’istruzione. Le cifre dovrebbero parlare chiaro, eppure, in qualche modo, si contraddicono: la percentuale di laureati prima dell’introduzione del celeberrimo 3+2 si aggirava intorno all’1,7, mentre attualmente è del 29,9. Si registra, però, un alto tasso di abbandono, che va ben oltre il quasi fisiologico 20% dopo il primo anno. Nel triennio, complessivamente, il 40% degli studenti lascia l’Università, un buon 20% risulta inattivo, e circa 700mila ragazzi regolarmente iscritti non conseguono più di 20 crediti all’anno.
Ciò che balza subito agli occhi è l’inadeguatezza di un sistema che non riesce a sostenere le aspettative degli studenti, che si vedono preclusa anche la possibilità di una carriera accademica, alla quale oggi si accede mediamente a 36,6 anni.

Dopo Corbino è la volta di Fabio Granata, PDL, che ammette gli errori della prima formulazione della 133.
«Il blocco del turn over era una jattura», afferma «e adesso si sta cercando di togliere dalle mani degli Atenei il meccanismo dei concorsi, in maniera da garantirne la trasparenza. L’Università è la più grande infrastruttura immateriale del Paese, e proprio per questo c’è bisogno di percorsi di merito che regolino l’accesso professionale ad essa. Vorremmo creare, ad esempio, un’anagrafe delle pubblicazioni. Ricordo, inoltre, che l’Università ha il compito di formare uomini che sappiano dialogare…»
Dal pubblico, uno dei rappresentanti del Movimento Studentesco Catanese intervenuti, al verbo “dialogare” risponde inveendo: «Buffoni, volevate mandare l’esercito!»
Un altro, Sebastiano Intelisano, rincara la dose: «Compagno Granata!»
Il preside Famoso interviene, prega di non lanciare offese, ed Intelisano risponde: «Ma “compagno” non è mica un’offesa!»

All’onorevole del PDL, segue l’opposizione di Luciano Modica, PD, che, con piglio tragicomico snocciola dati inquietanti.
«Guardiamo il quadro internazionale prodotto dall’OCSE ed elaborato su una base di 18 paesi europei. E’ una classifica… Spesa pubblica totale destinata all’Università? In Italia siamo diciottesimi. Numero di laureati? Diciottesimi. Soldi alla ricerca? Diciottesimi. Spese per gli studenti? Tredicesimi. Dati confortanti… Eppure gli italiani sono i terzi migliori scienziati d’Europa, altro che diciottesimi! I nostri giovani promettenti scappano, e gli altri se li prendono.»
La fuga di cervelli è il problema che preoccupa maggiormente Elita Schillaci, ex preside della Facoltà di Economia e Commercio di Catania, secondo la quale questa diaspora non viene affrontata adeguatamente, poiché mancano dei piani appositi che convincano i laureati nostrani a cercare un futuro in Italia, e non all’estero.
Un’altra questione sollevata è quella degli scandali: «Il problema delle parentopoli», continua la Schillaci «è circoscritto ad alcune facoltà, soprattutto a quelle in cui la tradizione professionale è un valore che si tramanda generazione dopo generazione. Mi viene da pensare, ad esempio, alle grandi famiglie di medici o di avvocati…»
Alle 19.00 iniziano gli interventi non programmati: Matteo Iannitti, MSC, Salvo Garozzo, ricercatore precario, Gianni Piazza, ricercatore di Scienze Politiche, e Giuseppe Dolei, professore di letteratura tedesca.
Tutti concordano nel dire un secco “no” ai tagli prospettati dalla riforma Gelmini e solidarizzano coi “non virtuosi”, ricercatori, studenti e professori che, pur non avendo colpa dei buchi di bilancio degli Atenei di cui fanno parte, ne pagheranno in prima persona le conseguenze. Non viene risparmiata nemmeno la norma anti-baroni, demolita da Gianni Piazza con un sillogismo inattaccabile: «Le commissioni saranno formate da ordinari. Non tutti gli ordinari sono baroni, ma tutti i baroni sono ordinari…»

C’è qualcosa che non va. C’è, decisamente, qualcosa che non va.
E’ un disagio tacito che si esprime, alla fine, nelle parole del prof. Antonio Pioletti, che vuole essere l’ultimo a parlare.
«Si sa: quando i soldi si vogliono trovare, si trovano. Secondo me, si vuole creare un preciso modello di Università e questi tagli servono a realizzarlo. Che Università avremo? Sarà quella che vogliamo?»
La risposta sembra quasi scontata. Ed è negativa.


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