Antonio Torrecamonica è un libraio che conduce una vita solitaria e lavora in una libreria di provincia. La sua unica fonte di gioia è dare fuoco a punti vendita di grosse catene editoriali, Feltrinelli su tutte, e utilizzare le pagine di Anna Karenina al posto della carta igienica. Questo strano personaggio, che si contraddistingue per un ciuffo al quale tiene con cura maniacale, è il protagonista di La solitudine di un riporto di Daniele Zito, ricercatore universitario precario di origini siracusane ma catanese d’adozione, al suo esordio nella narrativa. Il libro, edito da Hacca, ha avuto un grande successo di pubblico e critica. Complice una trama che appassiona fin dalle prime pagine e uno stile coinvolgente che molti amanti del web hanno già apprezzato tra le pagine del suo blog Sei cose. Abbiamo sentito il giovane scrittore alla vigilia di una presentazione catanese del romanzo, nel corso della rassegna stampa radiofonica Sette giorni in città sulle frequenze di radio Lab.
Il libro è già alla seconda ristampa e ha avuto ottime critiche anche a livello nazionale. Tu fai l’ingegnere, com’è nata la passione per la scrittura?
«Come mai un ingegnere si mette a scrivere? (Ride) Essenzialmente perché non lo fanno i letterati. Hanno lasciato questo enorme spazio e chiunque scrive e tenta di riempirlo».
Il protagonista del libro, Antonio Torrecamonica, è un libraio sui generis.
«È la storia di un libraio di provincia, un omone corpulento pieno di cicatrici, devastato da un riporto agghiacciante. Come tutti i librai, odia tre cose: libri, lettori e la letteratura in generale. Questo personaggio grottesco, dopo 20 anni prende un libro in mano. A partire da quella lettura partiranno una serie di eventi che lo porteranno a una fuga verso la libertà da una serie di gabbie concentriche che lo tenevano stretto a sé».
Da dov’è nata l’idea di questo libraio folle? Non ci sarà mica qualche aspetto autobiografico.
«Spero di no. È nato da alcuni personaggi che ho conosciuto, uno dei quali è proprio un libraio di una libreria di Milano che ha chiuso, Utopia. Si chiama Lucio ed è un anarchico vecchia maniera con idee molto radicali. A partire da lui, dalla sua fisionomia, ho iniziato a costruire attorno a quello che mi ricordavo di lui e del suo locale».
Sei arrivato alla seconda ristampa: quante copie hai venduto?
«Circa duemila in tre mesi. Ha avuto un successo inaspettato, dovuto a un fatto abbastanza banale, in fondo: molti librai indipendenti hanno preso questo libro come un simbolo, una mascotte, e hanno spinto tantissimo affinché vendesse. Malgrado sia un esordiente, sto facendo un giro di presentazioni nazionali, ho avuto critiche sul Sole 24 ore e L’Unità. Penso sia in gran parte merito dei librai che sentendo la storia di questo collega oscuro, negativo, che nel tempo libero fa saltare librerie Feltrinelli, si sono riconosciuti e mi hanno dato una chance. Il libraio bombarolo piace a molti».
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