Un giornalista e il delirio del suo Paese

Dopo averlo visto in prima pagina su “L’Espresso”, è bizzarro vederselo davanti la stessa mattina, ma con il viso e l’abbigliamento più curati.

Ma con più attenzione ci si accorge che lo sguardo è quello, uguale ogni volta, probabilmente lo stesso anche a Lampedusa, in Puglia o al CPT di Milano.

Fabrizio Gatti arriva un po’ in ritardo e si scusa, è colpa delle telefonate che arrivano per la sua ultima inchiesta giornalistica.

“Mago dei travestimenti” o “attore nato” sono formule piuttosto riduttive ma anche per questo reportage ha impersonato i panni di qualcuno altro da sé. Stavolta la parte richiedeva che interpretasse il ruolo di un inserviente del Policlinico “Umberto I” di Roma ed in fondo è stato più facile delle precedenti indagini o, meglio, meno rischioso.

Infatti si trattava di rendere pubblica la noncuranza che è causa di spazzatura e di infermieri che fumano in una corsia di ospedale e, appunto, la possibilità di passare inosservati all’interno di una struttura pubblica che, in virtù del suo ruolo, dovrebbe essere costantemente monitorata, senza occasionali trascuratezze.

Più dure le condizioni al CPT di Lampedusa, dove è stato Bilal, immigrato curdo, o in quello di Milano, impersonando il rumeno Roman Ladu.

Ma qui sarebbe bastato dichiarare la vera identità per evitare le umiliazioni e le violenze, fisiche e morali, divenute insostenibili, le stesse a cui non possono sottrarsi gli immigrati veri, coloro che sono partiti da lontano e non da uno scoglio di fronte le spiagge di Lampedusa, come Gatti ha fatto per rendere la vicenda più verosimile possibile.

In caso di eccessiva paura doveva solo pronunciare un nome, quello italiano e reale, come stava per fare quando si è ritrovato puntata alla schiena una pistola nelle mani di un poliziotto a cui nessuno aveva spiegato come usarla.

In questi casi ciò con cui ha dovuto pagare la sua “insolente curiosità” è stata una condanna di tribunale, poi sospesa, a venti giorni di carcere.

Estrema, invece, la sua esperienza pugliese.

Impegnato in lavori disumani per la raccolta dei pomodori, compagno di rumeni e africani, avrebbe consegnato la propria vita ai “caporali-padroni” se non avesse rispettato le regole del gioco o, peggio ancora, avesse ammesso di essere un giornalista italiano con l’obiettivo di denunciare questa forma di schiavitù moderna, perché non si tratta di sfruttamento, ma di schiavi con tutti i requisiti per essere considerati tali.

Se gli si chiede cosa si aspetta dalla sua ultima denuncia giornalistica risponde “niente”, perché quasi a nulla hanno portato le precedenti indagini.

Forse è il giornalismo investigativo a dover essere messo sotto processo ma, citando parole di Gatti, il giornalismo d’inchiesta non è agonizzante, è il Paese ad esserlo. Non gli si può dar torto, viste le indecorose realtà italiane svelate e finite nel dimenticatoio.

Così il suo racconto converge su alcune riflessioni che riportano a tre ordini di problemi.

Il primo riguarda la condizione degli immigrati che compiono viaggi dall’esito ignoto attraverso il deserto, e poi il mare ingannatore, per giungere occasionalmente su spiagge che significano reclusione in un CPT per poi essere rispediti a quel paese (quello di partenza, si intende) o inizio di un nuovo viaggio nel mondo del lavoro in nero italiano.

È la perdita del proprio nome, ci si trova tutti sotto l’etichetta di “clandestino”, e sono ancora uomini, magari che lavorano per assicurare la salsa sopra le nostre pizze o costruiscono case non loro e hanno lasciato indietro una famiglia che casa forse non ha.

Non è uno stato dei fatti a cui guardare con distanza, perché ciò che accade ora in Africa era scenario di parte d’Europa neppure troppi anni fa (e Gatti ricorda il Portogallo e la Spagna degli anni ’70).

Così si arriva alla seconda questione che è quella che ci tocca egoisticamente più da vicino, come popolo italiano.

I braccianti in Puglia e gli immigrati lungo tutto il paese vengono bruciati o accoltellati in un paese che non è in guerra civile, e con il tacito consenso di molti.

Fabrizio Gatti tiene a sottolineare che è un discorso politico ma che non ha nulla a che vedere con destra e sinistra: siamo di fronte alla garanzia di diritti fondamentali che da sempre sfuggono, in teoria, a qualsiasi schieramento, e alla tutela di quello straordinario documento, in alcuni suoi passi al confine con la poesia, che è la nostra Costituzione.

Le parole del giornalista comunicano terrore e suonano troppo forti quando afferma che se ora è il turno degli immigrati, il prossimo sarà quello dei cittadini italiani.

I diritti sottratti non vengono denunciati e questo diventa tema della terza riflessione, che conduce alla debolezza del lavoro svolto dagli organi di informazione.

In più di una clamorosa occasione di mancata salute del Paese e dei sistemi su cui dovrebbe reggersi il suo essere civile, i mezzi di comunicazione hanno pressappoco taciuto e la popolazione non chiede trasparenza.

In tutto ciò il giornalismo assume un ruolo cardine e Fabrizio Gatti, credendo nell’indipendenza del suo mestiere e nella formazione etica che richiede, lancia un invito.

Al di là dell’esempio implicito nei suoi lavori, questa voce pacata e potente comunica e trasmette la voglia di una democrazia quasi perduta ma ancora riconquistabile.


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