Un dissacratore, un consacratore

La ricerca impossibile di un filo conduttore nell’opera di Fabrizio De André.

 

Potremmo scrivere due canzoni, due testi, i titoli li abbiamo. Ma purtroppo non ne siamo capaci. Potremmo disquisire sulla sostanza filosofica di De André, ma forse non è possibile farlo con discernimento: c’è una linea di pensiero facile da seguire? C’è un sistema filosofico dentro le canzoni di De André? Non dovrei neanche chiederlo.  Le etichette, la stabilità, l’univocità non sembrano appartenere al cantautore.

Cosa dire dunque del pensiero di questo grande pensatore?

Dissacratore e consacratore, un’antinomia armonizzata dal suo genio. Ho in mente soprattutto la sua lettura de “La buona novella”, in cui si rispecchia a meraviglia l’umanità al di sopra di ogni sospetto di Fabrizio De André:

 

“Ave Maria, adesso che sei donna,
ave alle donne come te, Maria,
femmine un giorno per un nuovo amore
povero o ricco, umile o Messia.

Femmine un giorno e poi madri per sempre
nella stagione che stagioni non sente.”

 

“Ma adesso che viene la sera ed il buio
mi toglie il dolore dagli occhi
e scivola il sole al di là delle dune
a violentare altre notti:
io nel vedere quest’uomo che muore,
madre, io provo dolore.
Nella pietà che non cede al rancore,
madre, ho imparato l’amore.”

 

“Laudate hominem
No, non devo pensarti figlio di Dio
ma figlio dell’uomo, fratello anche mio.
Ma figlio dell’uomo, fratello anche mio.
Laudate hominem.”

 

 
Ma la dissacrazione passa anche dalle figure tradizionali, familiari e persino da quelle controcorrente. De André è un profanatore, con il tocco delle sue parole il sacro decade, si materializza, si incarna e si svaluta. Ma nel momento in cui il divino si fa carne, De André lo consacra nell’ambito dell’umanità, della forza della debolezza, della dignità dell’indecenza.

Il sacro e la carne, due mondi che Cartesio definiva incommensurabili, l’apartheid del corpo perpetrato dall’anima, in De André si annullano. L’ironia, la violenza, la forza, la poesia delle sue parole contro questa disumanizzazione dell’uomo nel nome dell’anima e persino nel nome del corpo. 

La sua è una ricerca, la ricerca di ciò che ha valore nell’uomo, è la spoliazione di tutti i mascheramenti, la svalutazione delle distinzioni di censo, razza, sesso, in nome della plurivoca ed equivoca unicità dell’uomo.

In fondo non so bene chi sia stato Fabrizio De André, non lo so perché la sua scoperta è continua, e il quadro non è mai definitivo anche e soprattutto nonostante la sua morte. 

La musica, ancorché dotata di parole piene di significato, riesce ad andare oltre la semplice considerazione intellettuale, la si ascolta ma soprattutto la si sente. E la musica e le parole che hanno una loro musicalità intrinseca ed  estrinseca sono una sola cosa, che non si presta ad analisi filosofica. Allora queste riflessioni si tramutano nell’invito all’ascolto, alla solitaria meditazione, alla scoperta di un tesoro che deve radicarsi nell’individualità dell’ascoltatore, un invito ad abbandonarsi al tutto che l’opera di De André rappresenta, per cercare da soli, in autonomia il percorso di uscita dal labirinto della vita.


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