Dopo l'omelia di padre Gianluigi Colombi, parla Mario Casella, fratello di una delle vittime. «Voglio continuare ad avere fiducia nello Stato - dice dal pulpito - Sono cresciuto nel ghetto, ho sbagliato e ho cambiato vita». Guarda le foto
Uccisi per le arance, Librino piange Massimo e Agatino Il prete: «Niente vendetta. Ragazzi, scappate via da qui»
«Non possiamo cedere al desiderio di farci giustizia da soli. Io voglio continuare ad avere fiducia nello Stato e in Dio. Ve lo dice un ragazzo che è cresciuto nel ghetto, nel quartiere, ho fatto i miei sbagli. Ma cinque anni fa ho cambiato vita: prima non avevo speranza, non avevo una via. Mi sarebbe piaciuto dare questo messaggio in un’altra occasione, e invece lo devo dire adesso». Mario Casella parla dal pulpito della chiesa Resurrezione del Signore, in viale Castagnola, di fronte alle bare di suo fratello Massimo (47 anni) e del 18enne Agatino Saraniti. La parrocchia è gremita e tanta gente è rimasta fuori. Centinaia di persone, a Librino, piangono i due ladri di arance uccisi la notte tra il 9 e il 10 febbraio in contrada Xirumi, alla Piana di Catania. Tra i banchi, ad ascoltare la messa, c’è anche la madre di Gregorio Signorelli, che era andato con Casella e Saraniti e che è l’unico sopravvissuto alle fucilate dei guardiani. A confessarle è stato il 42enne Giuseppe Sallemi, che ha dichiarato di avere agito da solo e per legittima difesa. Sebbene i colpi alla schiena raccontino un’altra storia. La procura di Siracusa indaga, inoltre, anche sul coinvolgimento del pensionato 70enne Luciano Giammellaro.
I corpi delle due vittime sono stati restituiti ieri ai familiari. Da quel momento, tra i palazzoni popolari di viale Moncada, una folla di persone si infila per le strade e va a dare l’ultimo saluto ai due. Il 18enne tra pochi mesi sarebbe diventato padre di una bambina. Casella, invece, da dieci anni conviveva con la madre di Saraniti. Una famiglia unita che piange gli ennesimi morti. Tre zii di Agatino sono stati uccisi tra il 1996 e il 2013. «Massimo lo ha visto crescere ad Agatino», dice suo fratello Giuseppe, 27 anni. Al guinzaglio tiene Brenda, la pitbull di Agatino a cui è stata messa addosso la stessa maglietta che hanno addosso tante persone: «Vivrete sempre nei nostri cuori», c’è scritto. Il corteo funebre parte da casa loro poco dopo le 15.30. Mentre vengono accesi alcuni fumogeni rossazzurri, un amico con la tromba accompagna le bare che entrano nelle auto delle onoranze funebri D’Emanuele suonando Il silenzio. Gli applausi sono scroscianti, i volti in lacrime non si contano. Sono per lo più amici giovanissimi.
I clacson di motorini e automobili sottolineano l’uscita dal budello che porta al palazzo dove Agatino e Massimo vivevano. A pochi metri c’è anche casa di Gregorio Signorelli. «Agatino uno di noi», comincia un coro da stadio. Ma dal fondo una donna interviene: «Fate un applauso anche per Massimo, che era bravo». E l’applauso arriva. Le bare, portate a spalla da ragazzi che si danno il cambio in silenzio, sono precedute da uno striscione. Superando la rotonda dell’ospedale San Marco, vengono portate nel cortile di un palazzo di viale Moncada 11. «Qui è casa dell’altra mia sorella, Agatino stava sempre qua, lo conoscono tutti». Vengono esplose quattro batterie di fuochi d’artificio. Per tre minuti si sentono solo quei rumori e si vedono solo i palloncini bianchi e azzurri lasciati volare in cielo. Resta a terra, invece, il gonfiabile a forma di 18, per ricordare l’età della più giovane delle vittime.
Da lì in poi si va dritti in chiesa. Da un anno la parrocchia è retta da padre Gianluigi Colombi, originario di Bergamo. «Ho fatto vent’anni in Africa, poi dieci in Albania. Andavo a cercare i miei fedeli nei campi in cui i ragazzini coltivano la marijuana che si spaccia in questo quartiere», comincia. La sua omelia parte dal brano del Vangelo scelto per ricordare Agatino Saraniti e Massimo Casella: quello in cui Gesù Cristo condivide il supplizio della croce con due briganti. «Questi momenti ci mettono tutti in croce e ci fanno sentire la nostra terribile umanità. Uno dei due malfattori parlava a Gesù, diceva “Tiraci fuori da questa merda“», spiega don Colombi. E allora dallo schifo della vita a Librino bisogna tirarsi fuori da soli, sottolinea il parroco. «Non fatevi rubare la speranza e il futuro, ragazzi. Costruitevelo. Datevi un obiettivo, uno scopo, e perseguitelo. Non aspettate il Comune o le istituzioni». Che tanto, in quella chiesa, non ci sono.
Infine l’affondo: «La vendetta non serve. Rende felici un minuto e poi svanisce. Il perdono, invece, vi renderà liberi per tutta la vita. E poi scappate via. Scappate via – ribadisce – Scappate da questa terra, anche se vi piange il cuore. Se restate qui, rischiate di finire troppo presto nelle tombe». In chiesa non parla nessuno. Alle 18 la funzione finisce. Gli ultimi fumogeni vengono accesi per disegnare nell’aria dei cuori. «Gli volevano bene tutti, non solo da Librino. Non è giusto – ripete Giuseppe, il fratello di Agatino – Non è giusto».