Dal 13 dicembre al Piccolo Teatro Patafisico di via La Loggia va in scena l'opera di e con Dario Muratore, basata sui racconti della nonna in Africa. «Per tornare alle origini e per affrontare il discorso sulle migrazioni in un modo meno legato all'attualità»
Tripolis, lo spettacolo sul colonialismo italiano in Libia «Contro questo tempo che vive sul rifiuto del confronto»
«Ho sempre vissuto in luoghi interculturali: qui vivo a Ballarò, a Milano stavo in via Padova. Posti in cui comunque si vive insieme, in cui ci si toglie tutte le sovrastrutture per una convivenza che è reale e umana». Non c’è presente senza passato, e tantomeno se si vuole andare avanti prima o poi ci si deve guardare indietro. Lo sa bene Dario Muratore, l’artista palermitano che dal 13 dicembre e fino al 15 debutterà per la prima volta nella doppia veste di attore e regista con lo spettacolo Tripolis. Lo spettacolo, che andrà in scena al Piccolo Teatro Patafisico di via La Loggia, vede un giovane uomo che chiede a una vecchia donna quali siano le tracce della propria origine. La Libia, Tripoli, la colonia italiana. Attraverso il topos nonna/nipote viene evocato un secolo di storia, di vita, di morte ma soprattutto d’incontro tra due identità: quella del colonizzatore e del colonizzato.
«Il testo è costruito sui racconti reali di mia nonna – racconta Muratore – io ho dormito al suo fianco per dieci anni e ogni notte, specie quando ero più piccolo, le chiedevo di raccontarmi questi episodi che sono rimasti nella mia memoria in modo molto forte. Adesso è arrivato il momento di tirarli fuori». Per attuare questo percorso di autoconsapevolezza l’artista ha ritagliato per sè il doppio ruolo di regista e attore, con un lavoro di scavo personale che non deve essere stato facile. «Stare dentro e fuori è una scommessa – conferma -, ho accanto a me Simona Sciarabba che mi aiuta in quanto occhio esterno e prezioso confronto. Il lavoro è un trittico, che vede la visione del nipote, quello della nonna e l’ultimo intervento che chiude la drammaturgia e che vede l’arrivo del potere e della rivoluzione».
A pensarci bene con Tripolis viene in mente l’accostamento con Ritratto dello zio, di Giorgio Gaber: un racconto del cantante meneghino di un parente fascista che consegna un’immagine affettuosa e piena di piccoli dettagli e allo stesso tempo «ancora non mi entra nella testa come hai potuto fare certe cose» Perché, come cantava Gaber, «l’uomo è quasi sempre meglio rispetto alla propria ideologia». Un parallelismo che piace a Muratore. «È questa la direzione – conferma – La nonna è culturalmente fascista, ha vissuto quel periodo lì e ovviamente quando nomina Lui, come lo definiamo nello spettacolo, viene fuori un ricordo felice e positivo. Attraverso l’empatia e l’umanità di questa donna viene però fuori un altro aspetto, quello di una figlia del suo tempo. A me interessava esplorare questi livelli che si sommano. Nello spettacolo la nonna si accorge infatti della visione dell’altro, dello straniero, di colui che nel suo caso è il dominato. La nostra identità la creiamo attraverso il confronto. E questo sembra incredibile oggi, in un periodo invece in cui viviamo il rifiuto del confronto».
Un lavoro che conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che il grande rimosso del periodo coloniale italiano in Africa deve ancora essere affrontato e soprattutto ha ancora i suoi effetti. «Molta arte in questo momento sta affrontando il tema delle migrazioni – dice l’attore – Ma nel nostro spettacolo se ne parla in un modo meno legato all’attualità, in un modo un po’ più ampio». Mercoledì alla prova generale di Tripolis ci saranno i ragazzi e le ragazze provenienti dall’Africa e che fanno parte di Diverse Visioni, il progetto teatrale curato da Margherita Ortolani, e che hanno apprezzato il racconto del passato libico.
«Nominare la Libia oggi vuol dire pensare a un preciso momento storico, cioè quello attuale – afferma ancora l’artista palermitano – Mentre si tende a tacere del passato, della violenza da parte italiana e dei colonizzatori in generale. Forse in Libia il processo storico è stato meno tragico che altrove, ma in realtà anche lì c’erano i campi di concentramento, gli arabi venivano impiccati, sono state avvelenati le fonti d’acqua. È stata una persecuzione a tutti gli effetti. E la cosa interessante del lavoro è il momento in cui, finita la guerra, l’Italia perde il dominio sulla Libia. E quindi il colonizzatore, tra cui anche la nonna matre-mater-padrona diventa una minoranza. Anche lei si sente minacciata, la sua vita si sgretola fino a quando sarà lei stessa a desiderare di andare via».