La familiarità della famiglia Ciancimino con Bernardo Provenzano, che da latitante sarebbe stato «libero di muoversi perché rientrava negli accordi siglati con le istituzioni, avendo potuto prendere la guida di Cosa nostra per fermare l’escalation di violenza di Riina». Gli investimenti di Vito Ciancimino, l’ex sindaco mafioso di Palermo, e dello stesso Provenzano nella Milano due realizzata da Silvio Berlusconi negli anni 70. E ancora i pizzini sgrammaticati di Totò Riina, il misterioso signor Franco, agente dei servizi segreti che avrebbe mediato tra Vito Ciancimino e gli apparati di sicurezza. E ancora la presunta richiesta di Franco Restivo, ministro dell’Interno degli anni ’60, di mettersi in contatto con i corleonesi.
Massimo Ciancimino – figlio dell’ex sindaco Vito, condannato per riciclaggio e detenzione di esplosivo – è un fiume in piena nell’udienza del processo sulla trattativa Stato-mafia che si celebra a Palermo, dove è sia imputato per concorso esterno alla mafia che teste. Racconta quello a cui avrebbe assistito o avrebbe saputo stando vicino al padre per decenni, cominciando dagli anni 60. «Restivo (ex ministro dell’Interno ndr) – ha spiegato – chiese a mio padre di fare da tramite coi corleonesi, mafiosi suoi compaesani che allora stavano prendendo il potere. Il signor Franco era una sorta di collettore di informazioni, una persona poco nota che non destava sospetti e che teneva i contatti con mio padre». Nel 2011 i figli dell’ex ministro hanno querelato Massimo Ciancimino per le sue dichiarazioni, rese ai pubblici ministeri, e finite nel libro Il quarto livello del giornalista Maurizio Torrealta.
Secondo l’imputato il padre avrebbe ricevuto informazioni riservate e dossier su politici con la scritta «ministero dell’Interno». Mentre lo stesso Massimo Ciancimino avrebbe ricevuto rassicurazioni dal signor Franco per i suoi problemi giudiziari. «Quando mi iscrissero nel registro degli indagati per mafia – ha detto in aula – mi rassicurò dicendomi che era stato fatto apposta per consentirmi di avvalermi della facoltà di non rispondere in caso di domande sulla trattativa». Continuando a parlare degli anni ’70, il figlio di don Vito è tornato sugli investimenti di Cosa Nostra nelle attività di Silvio Berlusconi. «Nel 1976-1977 – ha affermato – venne proposto a mio padre di investire nell’attività dell’imprenditore milanese Silvio Berlusconi che stava costruendo a Milano due. Promotore dell’iniziativa fu Stefano Bontade. Lui accettò e all’affare parteciparono anche gli imprenditori Buscemi e Bonura. Ci fu anche una partecipazione di Provenzano». A fare da tramite tra Vito Ciancimino e quello che sarebbe diventato il presidente del Consiglio, sarebbero stati lo stesso Bontade e Marcello Dell’Utri, ex parlamentare di Forza Italia, condannato definitivamente a sette anni per concorso esterno alla mafia. «A mio padre – ha aggiunto – venne chiesta anche una consulenza urbanistica sul progetto Milano due, per valutare il tipo di operazione. Lui si meravigliava della velocità con cui l’imprenditore era certo di ottenere le opere di urbanizzazione». Quindi ha accennato alla figura dell’imprenditore Francesco Paolo Alamia, anche lui «tramite con Berlusconi».
Passando ai rapporti con i due capimafia Provenzano e Riina, Ciancimino ne ha evidenziato la profonda diversità. Il primo «frequentava settimanalmente casa nostra. Ne ho ricordi fin dagli anni 70 – ha aggiunto -. C’era un rapporto familiare. Si presentava col nome di ingegnere Lo Verde». Mentre sul secondo ha detto: «Mio padre lo riteneva una persona limitata intellettualmente, un doppiogiochista e un uomo aggressivo. Non ne aveva alcuna stima, lo chiamava pupazzo. Riina – ha spiegato – veniva anche a casa nostra. Una volta litigarono per la vendita di un palazzo in via Libertà. Lui si divertiva a irritarlo. Diceva che era molto stupido e prevedibile e gli faceva fare lunghe anticamere che lui viveva come mancanze di rispetto». I pizzini da Riina sarebbero arrivati ai Ciancimino tramite il boss Antonino Cinà. Riina, ricoverato in ospedale per una insufficienza renale, stamattina è stato portato nel carcere di Parma per partecipare in videoconferenza all’udienza a cui ha assistito steso su una lettiga.
Diverso il discorso su Provenzano. «Ho fatto da tramite nello scambio di pizzini tra mio padre e Provenzano per molto tempo – ha raccontato Ciancimino -. Mio padre era molto cauto nel gestire la corrispondenza: li apriva con i guanti in lattice, li fotocopiava e poi li bruciava. I suoi pizzini li gestivo io direttamente anche tra maggio e dicembre del 1992». A proposito della lunga latitanza del capomafia, ha spiegato che «si muoveva liberamente grazie a degli accordi che erano stati stretti in anni passati, me lo disse mio padre. Mi spiegò che tanto Provenzano non lo cercava nessuno e che godeva di tutela e si muoveva tranquillamente nel territorio italiano». Quindi l’imputato ha sottolineato di aver capito chi era Provenzano solo vedendone la foto su un giornale. «Una volta, andando dal barbiere vidi sul settimanale Epoca l’identikit invecchiato di Provenzano e capii chi era – ha affermato -. Tornando a casa chiesi a mio padre se fosse Lo Verde. Lui si fermò per strada e mi disse “Ricordati che da questa situazione non ti può salvare nessuno”».
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