«Un uomo semplice, stimato, onesto e rispettabilissimo, che ha vissuto in quei luoghi in cui è stato barbaramente assassinato e che non poteva essere dimenticato». Questo il commento di Pietro Gottuso, presidente della VII circoscrizione di Palermo, in occasione dell’intitolazione di una piazza nella zona di Tommaso Natale a Giuseppe D’Angelo, ex titolare di un bar e incensurato ucciso per sbaglio dalla mafia quasi undici anni fa. «Oggi abbiamo scoperto la lapide che intitola, a futura memoria, la piazza – aggiunge Gottuso – Tale iniziativa era stata deliberata dal Consiglio della VII circoscrizione, su proposta del consigliere Pietro Pellerito, e l’amministrazione centrale oggi l’ha realizzato. Un figlio del quartiere di Tommaso Natale». Presenti all’evento di questa mattina anche il sindaco Leoluca Orlando, Libera Palermo contro le mafie e la sorella della vittima, Caterina D’Angelo. «Ringrazio soprattutto la famiglia – conclude il presidente – che ha consentito tutto questo».
È il 22 agosto 2006, a Palermo il caldo non dà tregua e sono in molte le persone che si riversano nelle spiagge. Lui no, però. Sta seduto su una sedia di legno, sospira e guarda le bancarelle di frutta e verdura di un amico cuocersi al sole estivo. Sta lì Giuseppe D’Angelo, pensionato di 63 anni che in quelle viuzze di Tommaso Natale c’ha sempre vissuto. È un attimo, un bruciore intenso sul corpo, ma non è più il sole. Cade dalla sedia, si ritrova sull’asfalto, il suo corpo è martoriato dai proiettili. Muore così, in quel giorno d’agosto, senza sapere probabilmente perché. Non può immaginare Pino, così lo chiamano gli amici di borgata, che assomiglia in maniera impressionante a Bartolomeo Spatola, detto Lino, capomafia proprio della sua borgata di mare, la cui fine arriva comunque qualche tempo dopo per lupara bianca.
Non sa che a sparare quei colpi, per un tragico scambio di persona di cui si rendono conto quando è ormai tardi, sono Gaspare Di Maggio, condannato in giudizio abbreviato all’ergastolo, e Francesco Briguglio e Gaspare Pulizzi, anche loro parte del commando. Sono loro due che, una volta arrestati, si pentiranno raccontando dinamica e movente dell’agguato. È grazie a loro, condannati a dieci anni, poi diventati nove in via definitiva, che il caso viene risolto. «Mi fa un certo effetto pensare che un assassino possa essere condannato solo a questi pochi anni – aveva detto all’epoca Caterina D’Angelo – ma è comunque grazie ai pentiti che finalmente è stata fatta giustizia». I mandanti sono risultati Sandro e Salvatore Lo Piccolo, i capi di San Lorenzo, condannati anche loro all’ergastolo con il rito ordinario.
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