Testimoni di ingiustizia

Vivono nella totale segretezza, costretti a nascondersi perché colpevoli di avere troppo senso della giustizia, al punto da sacrificare la loro libertà personale, la loro identità e il loro mondo per il bene comune e per la lotta contro la criminalità organizzata. Sono i testimoni di giustizia, persone coraggiose che hanno denunciato un fatto criminoso di cui sono vittime o a cui hanno semplicemente assistito. Ancora confusi da molti con i collaboratori di giustizia, le loro storie sono spesso dimenticate o lasciate nell’indifferenza. A raccontarle l’avvocato Angelo Greco, in un libro inchiesta sulla vita dei testimoni di giustizia dal titolo “Tra l’incudine e il martello” che sarà presentato alle 16.30 alla libreria Selinoon di piazza Vittorio Emanuele III a Catania nell’ambito di “La normalità della Testimonianza”, incontro organizzato dall’Associazione Antimafia “Rita Atria”. L’autore ha parlato del suo lavoro ai microfoni di Radio Zammù in un’intervista realizzata da Stefania Tringali.

 

Avvocato Greco, lei è autore del volume “Tra l’incudine e il martello. Un’inchiesta sul mondo dei testimoni di giustizia”. Qual è la sua visione sulle condizioni di vita di queste persone?

«È un problema serio che ancora non viene avvertito dall’opinione pubblica. La gente fa ancora confusione tra la figura del testimone di giustizia e il collaboratore. Il secondo è quello che comunemente viene detto pentito, mentre il primo è un soggetto incensurato che non ha alcun legame con la criminalità organizzata e che tuttavia decide di sacrificare la propria vita, sottoponendosi a dei programmi di protezione estenuanti, al fine di denunciare un fatto criminoso che ha avuto la sventura di vedere sia come vittima che, eventualmente, come terzo spettatore.

Queste persone sono sottoposte a dei programmi di protezione per cui vengono spostati da una località protetta all’altra e si trovano a dover fare i conti con l’incudine della ritorsione della criminalità organizzata e il martello dell’inefficienza burocratica».

 

Come uomo di legge, crede che la giustizia italiana tuteli a sufficienza chi ha deciso di essere così coraggioso?

«Sicuramente ci sono diversi buchi nella legge 45 del 2001, che sancisce la figura di testimone di giustizia. Uno di questi riguarda l’ambito lavorativo. Queste persone rimangono spesso per diversi anni senza documenti e quindi sono dei perfetti sconosciuti per la società. Non possono ottenere nessun tipo di rapporto giuridico, sia esso un rapporto di lavoro subordinato o autonomo. Immaginiamo una persona che per due anni non può lavorare e che è costretta a vivere con un sussidio di mantenimento che, sebbene la legge dica che deve essere proporzionale al tenore di vita precedentemente tenuto, in verità poi non è neanche paragonabile alla metà dello stesso».

 

Può farci qualche esempio?

«Molti dei testimoni sono soggetti che sono stati sottoposti a racket e come tali sono imprenditori che spesso dispongono di risorse economiche abbastanza cospicue. Nel momento della testimonianza si trovano, ad esempio, con una famiglia di quattro persone e con un reddito di 1.500 euro. Senza considerare il problema dell’alienazione e dell’inattività che porta proprio l’assenza del lavoro. Riprendendo le lacune della legge 45 del 2001, i problemi più gravi sono le interminabili attese per i documenti di protezione e i documenti di copertura che, ad esempio, potrebbero anche pregiudicare l’integrità e la salute di queste persone. Attualmente c’è un testimone di giustizia che non ha ancora un nuovo codice fiscale, quindi non può avere un medico di base, le prescrizioni delle medicine, e senza le medicine la sua vita è in continuo rischio. Piera Aiello, ad esempio, soffriva di asma, non poteva avere un medico che le prescrivesse i farmaci e si è dovuta “arrangiare” con un prestanome.  Un altro testimone aveva bisogno di essere ricoverato a causa di una trombosi: il servizio centrale di protezione gli ha detto che non poteva farlo perché ancora non era stata data l’autorizzazione. Ci sono delle situazioni al limite del credibile».

 

Come è nata in lei l’idea di realizzare un’inchiesta su questo tema? Cosa voleva raccontare?

«Lei parla di inchiesta, ma il tenore letterario del volume non è tecnico. Ho cercato di affacciarmi ad un pubblico comune, per non cadere in tecnicismi e fare un prodotto destinato soltanto agli operatori del diritto. Sono soltanto storie, raccontate in una forma narrativa che potrebbe quasi sembrare un romanzo per l’incredibilità dei fatti che narra, mentre invece sono fatti veri».

 

All’interno c’è anche la visione di come vive la famiglia del testimone, perché non è solo lui che risente della situazione.

«La famiglia subisce la scelta e, non a caso, il 90% dei testimoni rimane sempre senza famiglia».

 

Abbiamo parlato del perché testimoniare “non fa bene”, di quali sono i disagi di chi vive ogni giorno in questa condizione. Quindi, perché testimoniare?

«I testimoni dicono sempre che se tutti quanti avessero il coraggio che hanno avuto loro, il nostro sarebbe un mondo in cui non dovrebbero essere i testimoni a nascondersi e a scappare, ma i criminali. Fa specie pensare come proprio in Italia ci siano le principali organizzazioni criminali di tutto il mondo: evidentemente la nostra cultura è basata sull’omertà e nasce con l’omertà dalle scuole elementari, prosegue all’università e nel rapporto di lavoro, quando il lavoratore dipendente subisce in silenzio le angherie del datore. L’omertà si basa sull’ignoranza, la paura si basa sull’ignoranza, ma anche sull’inefficienza nel far valere i propri diritti. Testimoniare o non testimoniare: il discorso non dovrebbe essere neanche posto. Lo poniamo in una società come la nostra, ma la normalità dovrebbe essere quelle dei testimoni».

 

Due presentazioni per il suo volume, una a Milazzo e una a Catania. Due incontri, dedicati alle storie dei testimoni di giustizia, alla “normalità” in cui vivono giorno per giorno, raccontata anche attraverso le voci dei testimoni che parteciperanno: Piera Aiello, Ulisse e l’Associazione “Rita Atria”. Quant’è importante raggiungere un vasto pubblico?

«Moltissimo. Invito la cittadinanza, la Sicilia tutta, a partecipare all’incontro. Incontrare queste persone cambia la vita. Conoscere i testimoni mi ha davvero cambiato, ha segnato il mio modo di ragionare e di vedere la quotidianità. È dall’esempio che parte tutto: non dobbiamo aspettare che sia lo Stato a toglierci le castagne dal fuoco e a tutelarci».

 

Dopo aver conosciuto i testimoni e le loro esperienze, lei, oggi, testimonierebbe?

«Nelle situazioni bisogna trovarcisi, non posso fare una dichiarazione così ipocrita. In ogni caso, certo, provo un conflitto interiore di gran lunga superiore rispetto a quello che avevo prima».


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