Test rapidi, critiche al protocollo sul tavolo di Razza «Rischio di non tracciare oltre 10% dei medici infetti»

Due percentuali: 88,66 e 90,63. Due concetti: sensibilità e specificità. È intorno a questi numeri e parole che ruota il parere offerto dal comitato tecnico-scientifico, che da metà marzo collabora con l’assessorato regionale alla Salute, sull’utilizzo dei test sierologici nel monitoraggio dell’epidemia di Covid-19 in Sicilia. 

Il documento, su cui il governo ha cercato di mantenere il riserbo, si intitola Algoritmo di utilizzo dei test sierologici per la ricerca di anticorpi totali, IgM ed IgG e si compone di poche pagine in cui si sottolinea che «l’introduzione di questi sistemi, sotto stretto controllo, potrà facilitare un momento decisionale di uscita dagli isolamenti». Anche se questi test «non possono essere sostitutivi ma complementari» dei metodi di biologia molecolare. Ovvero i tamponi.

«Mi sembra che si tratti di un parere molto preliminare – dichiara a MeridioNews Enrico Bucci, professore aggiunto dello Sbarri Institute – Temple University, negli Stati Uniti -. Non vengono date indicazioni su specifici test da adottare e per quanto riguarda il margine di errore si fa menzione di valori dalla letteratura piuttosto alti». Per capire meglio il tema, però, bisogna fare un passo indietro e tornare alle nozioni di sensibilità e specificità di un test: la prima indica quanti tra i soggetti che hanno gli anticorpi specifici contro il virus si è capaci di intercettare, la seconda quanti tra i soggetti senza anticorpi risulteranno negativi al test. 

Nella ricerca del Sars-Cov-2 – il virus che causa il Covid-19 – così come fatto in passato con altre epidemie causate da coronavirus l’attenzione è prestata alle immunoglobine M (IgM) e alle immunoglobine G (IgG). Due tipi di anticorpi usati rispettivamente come marcatori di possibile infezione e avvenuta immunizzazione contro il virus. «Se assumiamo i tassi di errore citati nel documento e immaginiamo che si introduca un test con quei tassi di errore – spiega Bucci – si evince che circa il 12 per cento di chi ha nel proprio corpo IgG o IgM, e dunque in quest’ultimo caso il virus, non verrebbe intercettato. Questo implica che soggetti potenzialmente ancora infetti risulterebbero negativi al test. Mentre tra chi, invece, non ha anticorpi e dunque sarebbe suscettibile all’infezione, quasi uno su dieci risulterebbe al test come dotato di anticorpi specifici».

Riflessioni che si potrebbero accompagnare a rischi concreti nel caso in cui questi protocolli venissero utilizzati per determinare l’uscita dall’isolamento di soggetti in quarantena o, al contempo, l’individuazione di sospetti positivi. «Un passaggio fondamentale del documento è quello che riguarda la stratificazione della popolazione – prosegue Bucci -. A partire dalla strategia che viene suggerita per monitorare gli operatori sanitari Covid e non solo». Nel parere si legge che nel caso di IgM positivo il soggetto andrà in isolamento, mentre se l’IgG risulta positivo bisognerà effettuare un tampone per verificare la presenza di Rna virale. Qualora quest’ultimo non ci fosse si provvederà a una de-escalation del Dpi in uso, mentre se l’Rna virale venisse trovato il soggetto andrebbe in isolamento con ripetizione del tampone. Oltre alla categoria dei medici, vengono citate, come target della somministrazione dei test, quelle composte dal personale delle residenze sanitarie assistite, delle case di cura, soggetti sintomatici, paucisintomatici e la popolazione carceraria, compresi gli agenti penitenziari.

«Ciò su cui si sorvola è però il caso in cui l’IgM e l’IgG fossero negativi – osserva il professore -. In una tale situazione ho un dodici per cento di popolazione con anticorpi, quindi oltre un medico con antircorpi su dieci, che mi risulta senza anticorpi mentre in realtà ce li ha. Si noti che se il medico ha l’IgM è probabilmente infettivo. Allo stesso tempo stando alla specificità del test – prosegue Bucci – rischio di liberare da un isolamento una persona su dieci che mi risulta immune ma che in realtà non ha anticorpi, esponendola al contagio».

Per Bucci, che nei giorni scorsi ha criticato l’autonomia con cui le regioni si stanno muovendo alla ricerca di test rapidi da affiancare ai tamponi, la soluzione più efficace dovrebbe passare da una validazione di un protocollo a livello nazionale. «Ci sono alcuni test che consentono a un laboratorio di processarne anche settemila in un giorno, hanno il marchio Ce, ma vanno validati. Le Regioni, compresa la Sicilia, dovrebbero chiedere allo Spallanzani o all’Istituto superiore di sanità di lavorare alla validazione di uno di essi. Il rischio sennò – conclude il professore – è di affidarsi a test che danno risultati non sufficientemente attendibili».

Simone Olivelli

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