Strage via D’Amelio, perché continuare a indagare Pista nera: rapporti mafia, servizi e destra eversiva

«L’indagine sui
complici esterni della strage di via D’Amelio non può essere archiviata». Per la gip Graziella Luparello, che ha rigettato la richiesta di archiviazione della procura di Caltanissetta, servono «appositi accertamenti volti a tentare di chiarire alcuni aspetti dei fatti avvolti da una certa nebulosità, se non da una marcata opacità». A partire dalla figura dell’esponente dell’estrema destra eversiva di Avanguardia nazionale Paolo Bellini fino a quelle di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Per questo, nell’ordinanza di una trentina di pagine, la giudice elenca diversi punti per dare indicazioni sulle ulteriori indagini necessarie per fare luce sull’attentato in cui il 19 luglio del 1992 persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio TrainaIndividuati i responsabili mafiosi, per la gip non basta il presupposto della motivazione della richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero secondo cui la strage non ebbe mandanti esterni perché «un’entità forte come Cosa nostra mai avrebbe accettato l’assolvimento di compiti di mera esecuzione di decisioni prese da altri».

Il pm ritiene che dalle indagini non siano emersi elementi su
personaggi estranei all’organigramma mafioso, appartenenti a istituzioni deviate, che potessero avere dato il proprio contributo. Per spiegare la sua decisione, la gip torna indietro fino alla strage della stazione di Bologna del 2 agosto del 1980: «Soltanto in epoca recente sono affiorate e stanno affiorando delle responsabilità in capo a soggetti determinati, appartenenti alla destra extraparlamentare eversiva». Non solo un appiglio nel passato ma anche un riferimento a un processo in corso a Reggio Calabria sulla ‘ndrangheta stragista: alla sbarra e già condannato in primo grado c’è anche Giuseppe Graviano, fedelissimo di Totò Riina e protagonista della stagione stragista ’92-’93. Il processo riguarda l’esistenza di rapporti tra mafia e servizi segreti. In particolare la Falange armata, gruppo che a partire dagli Novanta rivendicò diversi episodi criminali in tutta Italia e a cui si attribuisce «un potere di co-regia rispetto a gravi fatti delittuosi a sfondo terroristico». Due esempi che la giudice utilizza per illustrare «una storica alleanza tra esponenti mafiosi e appartenenti alla destra eversiva con la complicità, tenuta sotto traccia, di ambienti delle istituzioni, in particolare dei servizi segreti, da sempre vicini alle sfere massoniche, inclini ad assecondare, quando non a promuovere, gravissime azioni terroristiche volte alla destabilizzazione del Paese». 

Nella stessa direzione va il riferimento all’omicidio di 
Piersanti Mattarella, avvenuto a Palermo il 6 gennaio del 1980. Per interpretare il delitto dell’allora presidente della Regione Siciliana e democristiano della corrente di Aldo Moro (a sua volta ucciso il 9 maggio del 1978 a Roma) «non può prescindersi dalla considerazione della possibile ingerenza del terrorismo di estrema destra». Per l’omicidio sono stati condannati solo i mandanti mafiosi ma furono imputati per l’esecuzione – ma assolti «con motivazione discutibile», appunta la gip in un inciso – anche esponenti dell’estrema destra eversiva. «Si tratta di un omicidio di matrice mafiosa – disse Giovanni Falcone durante un’audizione in Commissione parlamentare antimafia – ma il movente non è sicuramente mafioso», aveva aggiunto parlando dell’«esistenza di indizi a carico di esponenti della destra eversiva». Per la gip, anche in questo caso, ci sono elementi che «impongono di non resecare a priori la possibile rilevanza della pista nera». A partire dalla figura di Paolo Bellini (già affiorata nei processi Capaci-bis e trattativa Stato-mafia): esponente dell’estrema destra eversiva tra le fila di Avanguardia nazionale che è stato condannato in primo grado per la strage di Bologna. Lo stesso viene indicato come «infiltrato» nel biglietto di addio lasciato nella sua cella in carcere dal mafioso Antonino Gioè, prima di suicidarsi. 

Bellini, che nel carcere di Sciacca (Agrigento) aveva condiviso qualche mese di detenzione con Gioè, si sarebbe infiltrato per contribuire a recuperare opere d’arte rubate. «Ci si deve interrogare – mette nero su bianco Luparello – se avesse agito solo nell’interesse dello Stato oppure se non avesse fatto il “doppio gioco“, tessendo intelligenze con la mafia da un lato e con lo Stato dall’altro». Un’ipotesi che per la giudice sarebbe suffragata proprio da una rilettura del biglietto attribuito a Gioè dopo «l’emersione della circostanza che una parte dell’esplosivo usato per le stragi proveniva dalla cava Buttitta», nella zona di Bagheria, dove il detenuto raccontava di avere incontrato Bellini. Ed è per questo che «non pare peregrino ipotizzare che Gioè avesse fatto delle dichiarazioni che coinvolgevano Bellini nella fase dell’approvvigionamento dell’esplosivo e che poi – sottolinea la gip – mediante quello scritto, apparati deviati dello Stato avessero voluto correggere il tiro». Tra l’altro nell’ordinanza viene appuntato anche che Bellini era «esperto di esplosivi» e che «se fosse stato un mero mediatore per il recupero delle opere d’arte, Gioè non avrebbe avuto alcuna ragione di menzionarlo nelle sue ultime riflessioni». 

La conclusione della giudice per le indagini preliminari è che la storia del recupero di crediti nel settore odontoiatrico – motivazione usata da Bellini per spiegare la propria presenza in Sicilia nel 1991, proprio nei giorni in cui a Enna i vertici di Cosa nostra concordavano l’inizio della stagione stragista – sia stata «confezionata ad arte da apparati istituzionali deviati». In effetti, viene ricordato pure che Bellini aveva ammesso di avere agito per la ‘ndrangheta in Emilia Romagna come killer e narcotrafficante. Non solo il ruolo avuto da Bellini nella vicenda merita un approfondimento. Ci sono le questioni rimaste da tempo irrisolte: la manomissione (con cancellazione di dati), dopo la strage di Capaci, degli strumenti informatici di Giovanni Falcone nonostante fossero custoditi al ministero della Giustizia; la scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino e gli appunti spariti da casa dell’agente Antonino Agostino dopo il suo omicidio. Questi ultimi due fatti negati dall’allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. «Si tratta – annota la gip – di fatti certamente intrecciati tra loro. E si sostanzia la tesi che, per un dato periodo storico, la questura di Palermo e il Sisde potrebbero avere allevato al loro interno un nucleo operativo trasversale occulto che potrebbe avere avuto un ruolo nelle stragi di Capaci e via D’Amelio». 

Nel corso del processo di primo grado Capaci bis, Vincenzo Agostino – il padre dell’agente – ha riconosciuto, senza nessuna esitazione, in Giovanni Aiello – per tutti noto con lo pseudonimo di Faccia da mostro – la persona che, senza bussare, era entrato in casa sua durante il viaggio di nozze del figlio. Dopo avere chiesto notizie in merito alla presenza del figlio, sarebbe andato via in fretta a bordo di uno scooter guidato da un altro uomo. A questo proposito la gip ha appuntato che nell’ambiente di Cosa nostra circolava la notizia che Agostino stesse collaborando con i servizi segreti alla ricerca di latitanti. Per questo, più volte, l’agente sarebbe andato nella zona di vicolo Pipitone a Palermo. Un luogo nevralgico in cui si sarebbero incontrati i boss mafiosi – compreso Riina – con Bruno Contrada (ex capo della squadra mobile di Palermo e numero tre del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, con la sentenza poi dichiarata ineseguibile in seguito al pronunciamento della Corte di giustizia europea) e il suo uomo di fiducia, proprio Faccia da mostro. Sarebbe stato nel corso di un appostamento che Agostino avrebbe notato i due entrare nell’abitazione. Poco dopo in Cosa nostra sarebbe trapelata la sua intenzione di segnalare questi rapporti ambigui. L’omicidio D’Agostino «maturò tra il mandamento di Resuttana e quello di San Lorenzo», ricorda la gip che sottolinea l’importanza del ruolo assunto dai Madonia che «già da tempo, avevano stretto un saldo legame sia con la questura nella persona di La Barbera sia con i servizi segreti nella persona di Contrada». 

Infine, la gip scorge un ultimo livello investigativo da sondare: quello che riguarda la presenza nella filiera stragista di
un anello di carattere politico. Nel corso del processo Borsellino-ter, il mafioso Salvatore Cancemi ricordava che Riina, dopo la strage di Capaci, aveva ribadito la determinazione di uccidere Paolo Borsellino ponendo l’accento sulla necessità di appoggiare Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, già indagati e archiviati a Caltanissetta a cavallo tra il ’97 e il 2001. Giovanni Brusca aveva parlato di loro come possibili mandanti esterni delle stragi del 1993. Nel 2016, Giuseppe Graviano intercettato in carcere nell’ambito dell’indagine sulla trattativa Stato-mafia raccontava che «Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza […] Nel ’93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia, loro dicono che era la mafia». Nel 2021, Graviano ha confermato il riferimento a Silvio Berlusconi in quel dialogo. Del quattro volte ex presidente del Consiglio ha parlato anche il collaboratore di giustizia Tullio Cannella: «Bagarella (Leoluca, ndr) mi disse che stava nascendo una situazione in cui loro credevano molto: si trattava di un movimento che faceva capo all’onorevole Berlusconi […] e mi fece il nome di Forza Italia ancora prima che diventasse di dominio pubblico. Mi venne detto che tutti i voti sarebbe andati a questo movimento». 

Marta Silvestre

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