Stm, la Fiom vince ma ha meno delegati Sessa: «Vogliono pomiglianizzare Catania»

Alla St Microelectronics di Catania ogni giorno è ormai bufera. Quella vera, che più di una volta – l’ultima la scorsa settimana – ha allagato il modulo M6 e bloccato i lavoratori in azienda. E quella interna, dovuta prima alla scelta della società di chiedere la cassa integrazione e ora alle polemiche sulle elezioni del 28 febbraio per il rinnovo delle rappresentanze sindacali unitarie (Rsu). La Fiom-Cgil, nonostante sia risultata la prima lista su cinque con il 45 per cento dei voti, è stata esclusa dalla divisione di un terzo dei seggi perché non ha firmato il contratto collettivo nazionale del 2009. Una decisione illegittima, secondo la sigla esclusa, pronta a rispondere con una causa legale. «La Commissione elettorale non ha fatto altro che applicare le regole nazionali», ribatte Saro Pappalardo, segretario provinciale Fim-Cisl. Uno scontro che non è solo di principio, ma riflette la difficile situazione dello stabilimento etneo e le incerte prospettive per il suo futuro.

La vicenda risale al 2009, quando la Fiom rifiuta di firmare il nuovo contratto nazionale di lavoro a cui si oppone con un’altra battaglia legale. I giudici danno ragione al sindacato, dichiarando l’accordo separato invalido per i lavoratori aderenti alla sigla. Per loro viene considerato ancora in vigore il contratto del 2008. Nel 2011, intanto, alla St viene rivisto l’accordo su 21 turni, «contestato dalla Fiom e imposto ai lavoratori, senza alcun referendum interno», precisa Sessa. La tensione sfocia nell’ottobre dello scorso anno, quando l’azienda chiede la cassa integrazione. «I lavoratori erano inferociti». E, in due assemblee su tre, votano a favore di un piano di smaltimento delle ferie, «come si è poi fatto ad Agrate Brianza, l’altro grosso centro St in Italia». Eppure, al momento dell’incontro tra le parti aziendale e sindacale, la cassa integrazione passa.

L’imbarazzo è palpabile quando, dopo tre mesi, l’azienda chiede il prolungamento della cassa. A gennaio la maggioranza delle Rsu si dimette – con quattro mesi d’anticipo – facendo decadere l’intero organismo. E così – dopo un periodo di interregno gestito dalle segreterie sindacali – si arriva alle nuove elezioni delle scorso 28 febbraio. «Tra i quattro rappresentanti più votati, tre sono della Fiom», rivendica Sessa. E il primo è proprio lui. Ma la questione si complica. Se due terzi dei 36 posti vengono divisi tra tutte le liste, un terzo è riservato alle sole sigle aderenti al contratto nazionale di lavoro in vigore. La Fiom non è tra queste e viene quindi esclusa, ottenendo undici rappresentanti anziché 17. A nulla valgono i ricorsi dei membri Fiom della commissione elettorale alla commissione stessa. «E’ ovvio che con sei delegati in meno avremmo meno risorse per seguire tutte le questioni all’attenzione delle Rsu». Dalla mensa ai premi di produzione, passando per la sicurezza.

Il clima in azienda è pesante, denuncia la Fiom. Basta solo l’ultimo episodio a dare un’idea dell’aria che si respira alla St Microelectronics. «Abbiamo rischiato la vita per andare a lavorare ma, appena arrivati, ci viene detto di lasciare la sala di produzione e di tornare a casa», racconta un lavoratore a proposito dell’ultimo allagamento nello stabilimento. L’azienda, infatti, aveva deciso la cassa integrazione per il turno della notte, nonostante alcuni operai fossero rimasti a lavorare per riavviare le macchine. «Siamo convinti che con questo voto i lavoratori abbiano dato un segnale», commenta Sessa. Non recepito per interruzione di democrazia. O meglio di pomiglianizzazione della St, come dicono alla Fiom richiamando il discusso caso dello stabilimento campano della Fiat. Sessa parla di una serie di riorganizzazioni interne che hanno portato al Nord le teste dell’azienda – dai manager ad alcuni capi divisione -, «impoverendo la sede catanese delle tecnologie più avanzate». Disparità di salari e di livelli d’inquadramento tra gli stabilimenti di Nord e Sud: «A Catania, per la stessa mansione, si è almeno a un livello più basso rispetto ad Agrate e quindi con uno stipendio più basso». E soprattutto le «continue pressioni subite dai lavoratori – racconta il sindacalista – quando decidono di avvalersi di un proprio diritto, come i cinque giorni all’anno per la grave infermità di un familiare o la flessibilità settimanale e mensile». «Non ci stupiamo poi se qui si produce peggio», avverte Sessa. La soluzione, secondo la Fiom? Una vera unità sindacale. «In cui i diversi punti di vista vengono discussi con i lavoratori, che sono gli ultimi a decidere con i referendum – conclude – E il loro mandato va rispettato».

Alle recriminazioni sulla mancata partecipazione alla divisione di un terzo dei seggi rispondono le altre sigle sindacali: Fiom non ha firmato il contratto e ora non ha diritti, come previsto dalle modalità di voto stabilite dall’accordo interconfederale del 1993. «Quelli erano altri anni – ribatte il delegato Cgil – La regola dell’un terzo era nata per escludere i cosiddetti sindacati gialli, quelli filoaziendali. Un’esigenza superata». Ma non solo. Secondo la Fiom, la propria esclusione è sbagliata almeno per tre motivi: il superamento degli accordi del 1993 con quelli del 2001, il precedente delle elezioni del 2006 – quando alla sigla, pur non firmataria del contratto nazionale, non era stata sollevata nessuna eccezione – e, soprattutto, la decisione dei giudici sulla non validità della contrattazione del 2009. Motivazioni che adesso la Fiom vuole sostenere davanti a un giudice.

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