L'ex ministro della Dc Calogero Mannino, che doveva rispondere di minaccia a corpo politico dello Stato in una trance con rito abbreviato del procedimento sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia
Stato-mafia, Mannino assolto anche in appello Confermata la sentenza emessa in primo grado
Assolto, di nuovo. Questa la decisione appena emessa dalla corte d’assise d’appello di Palermo sulle sorti dell’ex ministro della Dc Calogero Mannino, che doveva rispondere di minaccia a corpo politico dello Stato in una trance con rito abbreviato del procedimento sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Anche la giudice Adriana Piras ha confermato la sentenza già emessa dalla gup Marina Petruzzella in primo grado, che lo aveva assolto «per non aver commesso il fatto». Per lui la procura generale aveva chiesto nove anni, ricalcando la richiesta fatta in primo grado, per essere stato – secondo la ricostruzione fatta dall’accusa – uno dei principali promotori di quel dialogo ipotizzato tra pezzi collusi delle istituzioni e i boss di Cosa nostra per porre un freno definitivo alla sanguinosa stagione delle stragi.
Il processo di secondo grado a suo carico era cominciato il 10 maggio 2017 davanti ai giudici della prima sezione della corte d’appello di Palermo. Due anni di udienze, con una riapertura dell’istruttoria dibattimentale in cui, tra gli altri, è stato risentito anche il pentito Giovanni Brusca. Nella tesi della procura generale, quello di Mannino sarebbe stato uno dei nomi nella lista dei nemici che Cosa nostra aveva deciso di eliminare per «saldare i conti» con chi non aveva mantenuto i patti, avrebbe avviato, grazie ai suoi contatti con gli ufficiali del Ros, una sorta di trattativa con le cosche per salvarsi la vita. Una tesi da lui sempre ritenuta «priva di ogni fondamento».
La gup Petruzzella aveva ritenuto, in primo grado, che non ci fossero prove sufficienti a dimostrare che Mannino fosse stato l’ispiratore della trattativa. Per la magistrata, in particolare, a risultare fragili erano state le fondamenta su cui si basava l’intero castello accusatorio, cioè le dichiarazioni di Massimo Ciancimino e il presunto papello consegnato dal figlio di don Vito agli investigatori nell’ottobre del 2009 con le richieste di Cosa nostra per interrompere la stagione delle stragi. Il documento, «che è stato fornito solo in fotocopia», sarebbe frutto di una «grossolana manipolazione» da parte di Massimo Ciancimino, di cui viene sottolineata «l’assenza di coerenza» e «la strumentalità del comportamento processuale».
Nel 2016 i pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, nel documento firmato anche dal procuratore capo Franco Lo Voi, si erano opposti con forza alla sentenza di primo grado. Contestando «macroscopiche incongruenze», «marchiani errori» e «carenza di analisi dei documenti» prodotti durante il processo sulla presunta trattativa. Tutti motivi che avevano portato a impugnare la sentenza e a ricorrere in appello. Durante il quale, proprio oggi, non sono stati ammessi i recenti verbali del neo collaboratore di giustizia Filippo Bisconti, ritenuto a capo del mandamento di Belmonte Mezzagno, che ha accusato l’ex ministro di essere un «uomo d’onore del suo paese».