Stato-mafia, «Dell’Utri non dovrebbe essere processato» All’Ucciardone la denuncia del legale nell’arringa finale

«Avrei dovuto chiedervi una sentenza di non doversi procedere all’inizio del processo, ma non l’ho fatto». L’avvocato Giuseppe Di Peri non usa giri di parole e durante la sua arringa finale davanti alla corte d’assise di Palermo, che sta celebrando il processo sulla presunta trattativa fra Stato e mafia, spiega perché l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri non avrebbe dovuto subire un secondo procedimento penale.

Tira in ballo, infatti, il ne bis in idem, quel principio che in giurisprudenza vieta di essere processati due volte per lo stesso fatto in presenza di una sentenza definitiva. Secondo l’avvocato, i fatti per cui è chiamato adesso a rispondere, insieme agli ex vertici del Ros Mori e De Donno, i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, e pentiti come Giovanni Brusca, sono gli stessi per i quali è stato già giudicato. «Il fatto – spiega il legale – è esattamente lo stesso e cioè l’esistenza di quel patto politico-mafioso che avrebbe visto Dell’Utri protagonista, ritenuto però inesistente da una corte d’appello e poi dalla Cassazione».

Un «patto» già vagliato dai giudici, «identico – continua Di Peri – come identiche sono le fonti di prova, i testimoni, i documenti e i collaboratori di giustizia. In questo processo si è tornati sugli stessi identici temi del processo per il concorso esterno». Dal movimento indipendentista di Leoluca Bagarella Sicilia Libera, alle dichiarazioni di Tullio Cannella e all’impegno di Cosa nostra a sostenere Forza Italia. «Tutto già visto e sentito e smontato dalla corte d’appello e poi dai giudici romani».

La sentenza passata in giudicato che ha assolto Dell’Utri dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa per le condotte successive al 1992 – la stessa che lo ha condannato a sette anni per le imputazioni precedenti a quell’anno – rende impossibile, secondo l’avvocato, la celebrazione del processo sulla trattativa. Dedica anche un passaggio alla figura dei collaboratori di giustizia, che definisce «uno strumento importante» ma da gestire in maniera diversa da come avviene nel nostro Paese. 

«Ci sono state maglie troppo larghe per gli ingressi nei programmi di protezione – dice l’avvocato Di Peri -. Se si vuole che le loro dichiarazioni siano genuine bisogna isolarli sin dalle prima battute come avviene in America, dove chi si pente soffre, non come da noi che possono poi uscire dal carcere, vedere i familiari». Il riferimento è al pentito Nino Giuffrè, ex boss che da anni collabora con gli investigatori e che, su Dell’Utri, secondo l’avvocato, avrebbe reso un crescendo anomalo di dichiarazioni accusatorie. Ma anche a pentiti come Di Carlo, Onorato e Guglielmini accusati dal legale di aver ordito un complotto contro contro l’ex senatore di FI. «In carcere stavano insieme – spiega – pranzavano insieme, parlavano e tutto mentre rendevano dichiarazioni alla procura di Palermo».

Redazione

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