Skin Trade, business delle donne costrette a prostituirsi Comprate in Nigeria e fatte arrivare in Italia coi migranti

Un fiume di soldi con il commercio della pelle. Come nei versi di una canzone dei Duran Duran in un business fatto di sfruttamento, prostituzione, violenze sessuali e riti esoterici. È quello che la procura di Catania ha scoperto con l’operazione Skin trade. Due organizzazioni, composte quasi totalmente, almeno sul suolo italiano, da donne nigeriane, che vendevano le connazionali nel mercato della prostituzione sui marciapiedi del rione di San Berillo e lungo la strada Catania-Gela. Il gruppo aveva contatti su cinque province italiane. Da Catania, passando per Napoli e Caserta, fino a Padova e Torino. Una rete le cui menti fanno affari nel marasma della Libia. Quattro uomini, non identificati, che lavorano e continuano a farlo sotto le sembianze di grossisti di esseri umani. Al momento sono finite in manette undici persone mentre nei confronti di altre quattro pende la richiesta di estrazione da alcuni paesi dell’Europa

L’inchiesta ha avuto inizio con la
denuncia di una donna, costretta a prostituirsi sotto le minacce di una coppia di connazionali, Beauty Aidiagbonya e David Ewere Omofomwan. La vittima nel luglio del 2013 va in questura e racconta di essere stata aggredita. «Abbiamo capito che serviva un’indagine più penetrante e sotto la regia della procura distrettuale antimafia abbiamo scoperto questo traffico di esseri umani», spiega in conferenza stampa il procuratore capo Carmelo Zuccaro. Accanto a lui c’è Lina Trovato, la magistrata che si è occupata di coordinare le indagini della squadra mobile etnea. «Le donne venivano trattate come oggetti da vendere in un contesto dove ci sono dei ruoli ben delineati», afferma Trovato. 

Per capire le gerarchie delle due organizzazioni italiane bisogna spingersi però fino al continente nero. Le donne vengono prese in consegna dai cosiddetti
trolley o connection men a Benin City, cittadina a sud della Nigeria, per essere portate fino in Libia. «Prima della partenza verso l’Europa vengono concentrate nelle connection house. Qui subiscono violenze di ogni tipo, in particolare di natura sessuale. E se qualcuna si oppone vengono per punizione rasate a zero», racconta la procuratrice. Ad aspettare le vittime in Italia ci sono le madame. Cioè coloro che le hanno materialmente comprate in Africa per introdurle sulle strade della prostituzione. «Le acquistano a una somma variabile da 1500 a 2000 euro».

Il costo del viaggio per le ragazze si aggira intorno a una cifra compresa tra
30 e 40mila euro. Il tutto suggellato da un rito voodoo, «una sottrazione dell’anima» che, come la definisce il procuratore Zuccaro, rappresenta una sorta di pegno da estinguere nel tempo attraverso i guadagni della prostituzione. Per loro l’unico rischio è quello dei possibili naufragi lungo il canale di Sicilia, per il resto si può tranquillamente parlare di un «investimento a costo zero». In un’intercettazione una madame preoccupata per i possibili problemi in mare viene rassicurata da uno dei trafficanti. «Le mandiamo, tanto poi le salvano gli italiani».

All’arrivo in Italia le vittime iniziavano una sorta di
tirocinio formativo: «Le madame spiegano che abiti devono mettersi e quali accessori portare ma anche le cifre da richiedere per le prestazioni sessuali», spiega Trovato. Le donne sfruttate, complici le difficoltà con la lingua italiana, spesso avevano difficoltà con i clienti. «In questi casi hanno un telefono che consente loro di mettersi in contatto con le sfruttatrici che fanno da traduttrici». Un business che si rigenera in continuazione perché molte volte sono le ex prostituite che si trasformano in madame. Occasione utilizzata per interrompere il meretricio e programmare una nuova vita, magari con un immobile da comprare in Nigeria. 

Dario De Luca

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