Simona Sorrentino, il basket ha cambiato la sua sordità «Rinunciando alla perfezione, ho smesso di scappare»

Simona Sorrentino ha 21 anni, è una cestista e con la nazionale italiana ha vinto la medaglia d’argento agli ultimi Mondiali sordi di pallacanestro, giocati a Mosca. La sordità è spesso un limite difficile da superare, ma non per lei che ne ha fatto un punto di forza per andare avanti e affermarsi nella vita e nello sport. La giovane ragusana, tuttavia, ha dovuto combattere con la disabilità e con chi non comprende la sua difficoltà di interazione.

«Ma cos’hai dentro le orecchie?». La carriera cestistica della 21enne inizia con le parole di un bambino, compagnetto di minibasket nei primi allenamenti che, senza peli sulla lingua, le chiede spiegazioni sulle protesi acustiche che Simona è costretta a indossare. Lei il basket lo ha respirato sin da piccolissima: il padre cestista ha trasmesso il gene della passione a lei e ai suoi fratelli Alessandro e Andrea. «Sono cresciuta a suon di nomi di giocatori, partite, trasferte e quant’altro. Ero già una bimba con un’altezza notevole, un po’ cicciotta e con i capelli sempre sciolti, disordinati e arruffati. Uno dei miei incubi di infanzia era la coda di cavallo, che tanto amo adesso ma per cui a suo tempo ho combattuto delle vere e proprie battaglie con mia mamma. Lei mi raccoglieva i capelli in una coda, ma io non volevo assolutamente, perché significava mostrare al mondo intero il mio problema. Che fossi sorda e quindi, per come la vedevo allora, una stupida». 

Vedendo le protesi, scattava la domanda degli altri bambini: «Cos’hai dentro le orecchie?». «Io mi paralizzavo e nella maggior parte delle volte scappavo. Poi ho cambiato protesi, ho cambiato compagni, e sarà che mi stavo sempre più innamorando della pallacanestro. Perciò tutto il resto non contava più di tanto. Sì, ci rimanevo male ma poi giocavo, facevo tanti punti a partita e mi divertivo. A basket non conta se senti bene le parole, il dettato della maestra o se al posto di “canottiera” dicevo “canocchiera”. Conta se ti diverti a giocare e io mi stradivertivo, finché ho cominiciato a togliermi piccole soddisfazioni con le squadre giovanili». 

Il primo vero allenatore è Giorgio Dimartino, che le apre le porte della neopromossa Passalacqua Ragusa in A1 di Nino Molino, il gotha del basket femminile in Italia. Qui Simona assapora il mondo del professionismo, non più solo una passione ma un lavoro segnato da tanto sacrificio. «Ricordo ancora il mio primo canestro in serie A, il 12 gennaio del 2014, e l’esultanza di tutto il mio pubblico, un sogno divenuto realtà! Sono suoni e scenari che ti porti dentro. Quelli sono stati anni in cui mi sono scordata letteralmente del mio limite. Finché un giorno mi chiamarono per far parte della Nazionale italiana di basket sorde. Sorde? Sono riscappata come quando ero bambina. Non era una cosa che mi inorgogliva, era una mia estrema debolezza. Ma il supporto della mia famiglia è stato fondamentale: “Provaci Simona, non costa nulla!” mi dissero». 

Al primo raduno Simona incontra altre undici ragazze e per la mia prima volta si allena senza protesi. «Un trauma – confida – Non le avevo mai tolte dalle orecchie se non per andare a dormire. Ma a volte nemmeno quello. Non è come quando togli gli occhiali e non vedi. Per me staccare le protesi era entrare nella porta di casa e lasciare tutto il resto fuori. Era come spegnermi. Invece per la prima volta ero sorda da sveglia e in un campo da basket. È li che ho cominciato ad avere a che fare con la sordità. Io da sola con me stessa. Ed era diverso: la sordità non era più il problema, ma una caratteristica che mi accomunava con il nuovo gruppo». La squadra che per la prima volta nel basket italiano sorde femminile, conquista la medaglia di bronzo agli europei di Salonicco e l’anno dopo il bronzo alle Deaflympics (i giochi olimpici silenziosi)di Samsun, in Turchia. «In quel supplementare decisivo diedi tutta me stessa. Così tanto che alla fine mi sono accasciata per terra, incredula, felice, a fissare bene il punteggio Italia 53 – Ucarina 52, per poi essere travolta dalle mie compagne di squadra in un abbraccio che ricorderò sempre».

Quell’autunno Simona entra a far parte della Virtus Cagliari di serie A2. Un anno cruciale per la sua  crescita cestistica e umana. «Solo col tempo ho imparato a convivere con la mia sordità. Lo scorso inverno, ad esempio, sono andata a correre con la musica alle orecchie senza protesi. Ovviamente cuffie grandi e volume altissimo ma aldilà di questo, a quasi 21 anni ho avuto il coraggio di andare in strada senza protesi. Dieci anni fa non lo avrei lontanamente immaginato. Non esisteva proprio. Dovevo essere perfetta e la perfezione era sinonimo di udente». 

La decisione di iscriversi a Scienze motorie a Ferrara porta con sé quella di smettere di giocare. Ma l’amore per il basket la tiene molto poco lontana dal campo. «Controllai il calendario delle lezioni: 4 ore al giorno con weekend liberi. Decisi di trovare una squadra e grazie al contatto di coach Braida (allenatrice della nazionale) con Frignani (allenatore della Rhodigium basket), sono entrata nella grande famiglia Rhodigium, in serie B. Mi sono sentita a casa, circondata da persone che hanno reso la mia sordità una caratteristica che mi contraddistingue. E ho iniziato pure a seguire pure i più piccoli, tra cui qualche bimbo sordo. Grazie a loro e soprattutto alla nazionale mi sono resa conto di quanto la pallacanestro mi abbia resa forte, seppure piena di fragilità, abbia preso la mia disabilità trasformandola in opportunità».


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