I giudici del terzo collegio del tribunale di Perugia, presieduto da Giuseppe Narducci, hanno utilizzato parole durissime per motivare le condanne dei funzionari di polizia coinvolti nel caso Shalabayeva, definito nel documento un vero e proprio «rapimento di Stato»
Shalabayeva, le motivazioni della condanna di Cortese «Il sequestro fu violenza contro i diritti della persona»
«Gli imputati hanno perpetrato un crimine di eccezionale gravità, lesivo dei valori fondamentali che ispirano la Costituzione repubblicana e lo Stato di diritto e, pur nel rigoroso rispetto del principio di stretta legalità il Tribunale avverte il dovere di manifestare che la norma incriminatrice del delitto di sequestro di persona, cioè il reato più grave contestato nel processo e per il quale il Tribunale ritiene di pervenire ad un addebito di responsabilità in capo agli imputati, appare quasi non adeguata a rappresentare, compiutamente, le dimensioni della condotta delittuosa e le devastanti conseguenze che essa ha cagionato». Parole pesanti quelle dei giudici del terzo collegio del tribunale di Perugia presieduto da Giuseppe Narducci, che hanno così motivato le condanne a cinque anni per Maurizio Improta, ex capo dell’ufficio Immigrazione, e di Renato Cortese, che da poco non è più questore di Palermo per il caso Shalabayeva.
Alma Shalabayeva, moglie dell’imprenditore dissidente kazako Muxtar Ablyazov, venne arrestata insieme alla figlia Alua, che allora aveva sei anni, nell’estate del 2013 in una villa nei pressi di Roma, rinchiusa dentro nel Cie di Ponte Galeria e infine estradata in Kazakistan. Un’azione compiuta con metodi che i giudici definiscono «un crimine di lesa umanità realizzato mediante deportazione». Il caso, che fin da subito destò l’attenzione dei media internazionali, vide come protagonisti i due dirigenti di polizia, impegnati nel blitz nella villa in cui la donna e la bambina risiedevano. Cortese e Improta, tra gli imputati, sono quelli che hanno ricevuto la pena più pesante.
«Tra il 28 maggio e le prime ore del 29 maggio, si creava una surreale situazione nella quale i più alti livelli della più importante forza di polizia del nostro paese restavano con il fiato sospeso in attesa che la Squadra mobile e la Digos romane realizzassero la cattura di una persona che assumeva le sembianze di un Bin Laden kazako – scrivono ancora i giudici – cioè di un pericoloso terrorista internazionale, quasi certamente armato, che metteva “in pericolo la sicurezza del nostro paese” (furono queste le parole usate dal ministro dell’Interno nel colloquio con il suo capo di gabinetto, sollecitandolo a incontrare i rappresentanti del Kazakistan)».
Non solo, dunque, per i giudici, si sarebbe trattato di un vero e proprio «rapimento di Stato», ma si sarebbe anche verificata una quanto mai insolita posizione di asservimento nei confronti di un Paese estero, il Kasakistan, oltretutto guidato da una dittatura. «La circostanza che ha sconcertato maggiormente il collegio è che nessun dirigente o funzionario della polizia, in nessuna fase di questa vicenda, abbia avvertito la necessità di soffermarsi, e soprattutto di far soffermare l’intera struttura, per ragionare sul fatto che la possibile estradizione di Ablyazov (se fosse stato catturato a Roma) e, soprattutto, la successiva espulsione della moglie e della figlia, sarebbero avvenute in favore di un paese, il Kazakistan, messo all’indice, nella comunità internazionale, proprio perché nazione che violava i diritti umani, anche praticando la tortura e la eliminazione fisica degli oppositori».
Resta ancora da capire quale ruolo avessero le autorità che stavano più in alto di Cortese e Improta, su tutte lo stesso ministro dell’Interno dell’epoca Angelino Alfano. «Se il Tribunale non è in grado di rispondere a una delle domande chiave che questa storia continua a suscitare (a quale livello politico o istituzionale venne presa la decisione della deportazione?) ritiene tutta via di poter affermare che durante tre interi giorni del maggio 2013 si realizzò, di fatto, una limitazione o compressione della nostra sovranità nazionale», concludono i giudici. Che in un altro passo delle motivazioni specificano: «Alcuni rappresentanti della Repubblica italiana, imputati nel presente procedimento accantonarono il giuramento prestato alla Costituzione e di fatto servirono gli interessi di altra nazione, cioè della dittatura kazaka».