L'Australia è diventata la meta prediletta degli espatriati di tutt'Europa. Il motivo? Economia forte, servizi efficienti, lavoro per tutti, opportunità per salvarsi dalla crisi. Il posto più felice della terra e con la più alta soddisfazione di vita, secondo stime internazionali. Ma è davvero la terra promessa? Ne abbiamo parlato con Serena, catanese, emigrata downunder con la famiglia quattro anni fa. «Qui c'è meritocrazia e ti puoi ancora permettere il lusso di sognare», spiega a Ctzen. Ma il suo cuore è rimasto all'ombra dell'Etna
Serena, una catanese tra i canguri «Qui se fai, ottieni. Ma mi manca la Sicilia»
«Australia felix». Sempre più persone scelgono di emigrare nel nuovo mondo per sfuggire alla crisi e rifarsi una vita. «Il posto più felice della Terra», secondo il rapporto annuale dell’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo, e il luogo con la più alta soddisfazione della vita, che ogni anno attira migliaia tra studenti, neolaureati e professionisti, che lasciano l’Europa alla volta del continente giovane per cercare lavoro e stabilità economica. Anche in Italia il mito australiano prende sempre più piede: ogni anno sono più di 60mila i connazionali che si trasferiscono tra i canguri in cerca di fortuna.
Ma il mondo di Oz è davvero il paese delle meraviglie? In cosa la Terra dei canguri batte lo Stivale? Qual è la trafila da fare per ottenere i permessi? E quanto è difficile per un italiano integrarsi downunder? Ne abbiamo parlato con Serena Bongiorno, siciliana di 38 anni che, nell’agosto 2008, insieme a marito e figlio, ha lasciato Catania alla volta di Adelaide, città sull’Oceano nel sud dell’Australia, tra le più grandi e vivibili della nazione. I punti di forza, secondo chi ci vive, sono innegabili: «Economia forte, servizi efficienti, popolo giovane e misto, governo stabile, stipendi alti, fiducia nelle istituzioni, senso civico. E poi gli aussie sono meritocratici e se diventi cittadino si curano di te. Qui ti puoi ancora permettere il lusso di sognare e se fai, ottieni», racconta Serena. Ma il suo cuore è rimasto all’ombra dell’Etna.
Serena, come sei arrivata in Australia e perché hai deciso di restarci?
«Tutto è cominciato per seguire mio marito. Mi piace dire che è stato un atto di amore. O di insicurezza. O entrambe le cose. Siamo arrivati con uno Skilled visa, un visto provvisorio per professionisti specializzati. Nel 2008, quando abbiamo iniziato la trafila, mio marito, che è agronomo, mi parlava già di crisi finanziaria. Mi spiegava che l’agricoltura ne risente per prima, e che stava pensando di emigrare. A tutto questo, aggiungiamo che è un giramondo di natura e che voleva fare questa esperienza all’estero e farla fare al nostro bambino. Quando è scoppiata la crisi vera e propria eravamo già downunder, decisi a rimanere qui per due anni, ottenendo il Permanent residence. Nel 2010 poi, la scelta di restare per un altro biennio, necessario ad ottenere la cittadinanza vera e propria. Siamo rimasti anche per lasciare un regalo a nostro figlio: bilinguismo e doppio passaporto. Speriamo lo apprezzi».
È stato difficile ottenere i permessi necessari? Pare che la trafila per diventare un aussie sia lunga e complessa.
«È un percorso molto lungo, impossibile da riassumere in pochi passaggi. Per farsi un’idea generale consiglio di dare un’occhiata al sito del Governo australiano. In base alla mia esperienza posso dire che è un processo che dura circa un anno e mezzo, e che adesso si è ancora più complicato. Ti chiedono certificati tradotti per qualsiasi cosa, analisi mediche ed eccellente conoscenza della lingua inglese, certificata dall’Ielts».
Parliamo di lavoro. È stato facile trovarlo quando sei arrivata?
«All’inizio ho fatto di tutto: aiutocuoca, cameriera, operatrice socio sanitaria, pasticcera. Acquistata sicurezza con la lingua inglese ho iniziato anche a cercare lavori simili a ciò che facevo in Italia. Di lavoretti se ne trovano tanti, lavori seri meno. E la discriminazione c’è sempre, perché ti chiedono un’ottima conoscenza della lingua e preferiscono dare il lavoro ai madrelingua o a chi vanta titoli di studio conseguiti in Australia. Ma Adelaide è molto provinciale, a Melbourne e Sydney so che non funziona allo stesso modo. Adesso lavoro part-time all’Italian chamber of commerce and industry. E poi a brevissimo aprirò un’attività nel campo dell’abbigliamento».
Come ti sei integrata in un posto così diverso dalla Sicilia, sia dal punto di vista sociale che culturale?
«Per me non è stato affatto semplice. All’inizio mi sono sentita persa. Non parlavo l’inglese, non potevo lavorare perché non ero indipendente, dovevo occuparmi di mio figlio e mio marito era spesso fuori. Lo shock culturale c’è stato. Mi sono dovuta abituare ad usanze, abitudini, orari, cibo diversi. Ma questa stessa diversità ti provoca anche tanta esaltazione. Entri in contatto con spazi immensi, soldi, gratificazioni, multiculturalità, libertà di essere come ti pare, di vestirti come ti va e non sentirti giudicata mai per questo».
Come sono gli australiani? Lo stereotipo li vuole stravaganti, aperti, e anche un po’ strafottenti.
«Sono allegri, rilassati, completamente folli, un po’ ignoranti e bevono troppo. Ma sono anche gentili, informali, meritocratici. Sono un gran bel popolo. Non guardano mai a come appari ma a come sei. Sono easy going, non prendono nulla sul serio e questo li porta ad essere però un tantino superficiali. Si prendono molto in giro, ma tengono tantissimo alla loro nazione. Stanno bene e sono sereni, perché hanno un’economia forte e non sanno cosa voglia dire preoccuparsi per il futuro. Si danno tutti del tu a prescindere dai ruoli e alle sei del pomeriggio al pub incontri il portantino che ridacchia e beve birra insieme al chirurgo dallo “stipendio di giada”».
Incontri tanti italiani? E cosa fanno lì?
«Ce ne sono tanti. Dai ragazzi con il Working holiday visa, che restano un anno e poi vanno via se non hanno le qualifiche adatte a fare domanda per un visto migliore, ai professionisti over 30, con ottimi lavori che in Italia però stentavano o non erano gratificati personalmente né economicamente. Molti hanno venduto tutto e provano a ricominciare qui perché è ancora il Paese delle opportunità. Tocca solo scegliere cosa si vuole fare. Ed avere soldi, perché tutto costa un botto. Formazione in primis».
Parliamo del mito autraliano. Il mondo di Oz è diventata la meta preferita degli emigrati di tutto il mondo. Ma è davvero il paese dei sogni, «il posto più felice della Terra»?
«Oddio, sulla felicità non sono d’accordo. In generale però sì, si sta bene. Economia forte, servizi efficienti, popolo giovane e misto. Governo stabile, stipendi alti, fiducia nelle istituzioni, senso civico. E poi sono meritocratici e se diventi cittadino si curano di te. Qui ti puoi ancora permettere il lusso di sognare e se fai, ottieni. E poi perché le altre mete sono diventate molto meno attraenti. Gli Usa son pieni di problemi, l’Europa è vecchia, i nuovi Paesi emergenti sono ancora poco sicuri».
Come ti trovi adesso?
«Bene. Ho un lavoro che mi appassiona e che mi tiene con un piede in Italia. Ho tanti amici di culture diverse, ho accesso ad informazioni ed esperienze che in nessun altro Paese è possibile avere. Ma mi manca casa. La Sicilia, la mia famiglia, i miei cani, i miei amici. Soffro molto di nostalgia, ma quando penso ad un ipotetico rientro mi terrorizzo. Mi manca l’aria a pensarmi di nuovo in mezzo a tutto quel cemento, a quella precarietà, all’arroganza, all’aggressività delle persone, alle code interminabili in macchina, allo stipendio che non basta mai, ai servizi che non sono garantiti pur pagando tante tasse, alla giustizia che non viene rispettata… Che faccio, continuo?».
Secondo te l’Australia è meglio della Sicilia?
«Per me nulla batte la mia Sicilia. Dal punto di vista emotivo ho odiato mio marito per avermi portata via da casa e dagli affetti in un’età in cui non prevedevo più grandi sorprese nella mia vita. Ma il mio lato razionale passa le prime settimane di ogni rientro ad odiare quello che puntualmente ritrovo: malcostume diffuso, confusione, sporcizia, indifferenza, sopraffazione. Poi però prendo una granita davanti ai Faraglioni, o passeggio sul Vulcano con i miei cani e passa tutto. Credo sia una naturale schizofrenia. Fa rabbia che in Sicilia sia impossibile raggiungere un tale grado di civiltà come quello che c’è qui. A volte penso che sarebbe meglio non vedere quanto meglio si può stare».
Torneresti a Catania?
«Certo. Non mi vedo ad invecchiare qui. E poi ciò che conta per me sono gli affetti. Io sono dove è il mio cuore, ed è all’ombra dell’Etna. Nonostante tutto. E poi il nostro sistema scolastico è decisamente migliore di quello australiano, quindi vorrei che mio figlio frequentasse le superiori in Italia».
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