Un atto di coscienza. È quello che serve, secondo l'attuale procuratore aggiunto a Messina, per proteggere il collega palermitano titolare del processo sulla trattativa Stato-mafia. Specie dopo le ultime minacce. «Così vive una morte costante delle sue giornate e della sua vita», spiega a MeridioNews
Sebastiano Ardita sulle minacce a Nino Di Matteo «Dopo le stragi, le istituzioni si sono addormentate»
Cosa nostra è cambiata. I padrini, quelli delle bombe del 1992 – 1993, sono quasi tutti reclusi al 41bis, il carcere duro, ma la cronaca di questi giorni sembra un dèjà vù. Un ritorno al passato lontano vent’anni. Una fonte top secret, come svelato dal quotidiano La Repubblica, avrebbe raccontato l’intenzione delle famiglie mafiose palermitane di compiere un’attentato eccellente. Quello al magistrato palermitano Nino Di Matteo, titolare del processo sulla trattativa Stato-mafia. La fonte ha spiegato che ormai da diversi mesi, nel capoluogo siciliano, sarebbe presente un grosso carico di tritolo da utilizzare proprio per uccidere Di Matteo.
Una vicenda delicata che ha fatto alzare ai massimi livelli le misure di sicurezza attorno a Di Matteo, ma su cui permane un vasto silenzio da parte di numerose istituzioni. «La situazione è preoccupante per diversi motivi», spiega a MeridioNews il magistrato Sebastiano Ardita, attualmente procuratore aggiunto a Messina, e difensore proprio di Nino Di Matteo davanti al Consiglio superiore della magistratura. «Prima di tutto ci sono le minacce e gli ordini di morte che sono veramente inquietanti, ma la cosa che più preoccupa è il fatto che sembra di essersi addormentati. Trascorsi vent’anni dalle stragi si dimenticano i rischi che si corrono a Palermo. In questo momento dalle istituzioni ci sarebbe bisogno di un atto di coscienza». Una presa di posizione netta, simile a quella dell’ex pm Antonio Ingroia: «La procura di Palermo – ha spiegato all’agenzia askanews – da troppo tempo è isolata».
«Bisogna rendersi conto – prosegue Ardita – non solo dei rischi che corre Nino Di Matteo e il gruppo di magistrati che lavorano insieme a lui per la vicenda trattativa ma sopratutto del sacrificio che stanno facendo. Di Matteo conduce una vita praticamente impossibile, priva di qualunque relazione, di qualunque spazio e libertà». Sulle misure di sicurezza attorno al magistrato, che indaga sui rapporti tra la mafia e pezzi dello Stato, intanto è stata nuovamente presentata un’interrogazione parlamentare ai ministri dell’Interno e della Giustizia per chiedere che il suo convoglio venga dotato del dispositivo anti bomba denominato bomb jammer. I quindici firmatari chiedono «se il dispositivo in questione sia nella disponibilità dello Stato e quali provvedimenti il ministro in indirizzo abbia intenzione di assumere; se abbia intenzione, qualora le notizie riportate corrispondessero al vero, di dotare la scorta del magistrato di tale congegno, che già avrebbe salvato le vite di Falcone, Borsellino, delle loro scorte e le loro inchieste». La richiesta era già stata presentata, sempre attraverso un atto parlamentare, nell’ottobre 2013. Ma era rimasta inascoltata.
La situazione che vive Di Matteo, per Ardita, è paragonabile «a una morte costante delle sue giornate e della sua vita, davvero ai limiti di ciò che può essere spiegabile e comprensibile. La gente forse non lo capisce bene perché non gli viene sufficientemente comunicato. Ecco perché oggi dovrebbe esserci una solidarietà e una vicinanza incondizionata nei suoi confronti». A mobilitarsi è intanto il coordinamento nazionale della Scorta civica antimafia che per sabato 15 novembre ha organizzato diversi sit-in davanti ai palazzi di giustizia italiani.