L'inchiesta, costola del blitz Scarface contro il clan mafioso Mazzei, vede alla sbarra il luogotenente delle Fiamme gialle Francesco Caccamo e cinque colleghi. Tra le accuse, alcuni arresti legati alla droga effettuati nei confronti di presunti innocenti. Devono rispondere di peculato, omissione d'atti d'ufficio, calunnia e falso
Scarface, i dubbi sugli arresti di sei Finanzieri La cocaina? «L‘avia misa nde minni, ‘sta cessa»
«Dentro San Giovanni Galermo mi muovevo come un pazzo, suonavo a tutti e salutavo per conquistarmi la fiducia». Il protagonista del racconto non è l’ultima vedetta di una delle più note piazze di spaccio di Catania. Le parole sono quelle di Francesco Caccamo, luogotenente della guardia di finanza etnea finito sotto processo insieme a cinque colleghi; accusati a vario titolo di peculato, omissione di atti di ufficio, violenza privata, calunnia e falso in atto pubblico. Caccamo già noto per i presunti favori al clan Mazzei, nel filone principale dell’indagine Scarface. Ma oggi in aula il militare è stato chiamato in aula per chiarire, o almeno provarci, alcuni aspetti legati a un blitz antidroga all’interno di una casa di via Capo Passero e alle dinamiche di alcuni arresti.
Uno dei punti chiave della testimonianza è la visita che i finanzieri nel 2012 effettuano a casa di Giuseppe Sapuppo. Secondo la procura di Catania quel giorno Caccamo insieme al vicebrigadiere Domenico Minuto, privi di mandato di perquisizione, sequestrano della cocaina alla moglie dell’uomo, senza stilare nessun verbale. «Ci siamo recati in quell’abitazione dopo una soffiata – racconta Caccamo – e abbiamo detto alla donna di darci la droga». Silvana Belgiorno, secondo la versione degli imputati raccontata in aula, non avrebbe però consegnato nulla: «Il marito mi prese a braccetto – prosegue il luogotente – e mi rivelò che di fronte casa sua alcuni spacciatori nascondevano la droga vicino ai cassonetti». Da una soffiata all’altra la versione non convince però il sostituto procuratore Andrea Bonomo che, durante il contro esame, legge un’intercettazione ambientale registrata dentro una macchina civetta quel pomeriggio di quattro anni fa: «L‘avia misa nde minni», avrebbe detto Caccamo a un collega, che risponde: «’Sta cessa». «Se l’avesse avuta davvero, io l’avrei sequestrata», replica Caccamo.
Chiarimenti sui dettagli di questo dialogo vengono chiesti dal magistrato anche al vicebrigadiere Minuto che replica: «Da cosa si evince la mia presenza in auto?». Bonomo spiega: «Dalla sua voce di sottofondo». Il finanziere a questo punto taglia corto: «Mi ero estraniato in quel momento». Dopo qualche ora dal blitz a casa dei coniugi Sapuppo, Caccamo decide di recarsi nuovamente in via Capo Passero per verificare, a bordo di un motorino, le informazioni che gli avrebbe fornito l’uomo. «Mi muovevo come un pazzo li dentro. Suonavo a tutti per avere la loro fiducia (riferimento ai numerosi pusher e vedette, ndr) tanto tra di loro manco si conoscono. Ho visto sei motorini, ho notato due soggetti scendere e andare verso i cassonetti davanti casa di Sapuppo, erano armati». Dopo il servizio d’osservazione Caccamo rientra in caserma, quando è quasi mezzanotte, e organizza dei posti di blocco notturni tra via Capo Passero e viale Tirreno per intercettare lo smercio di droga.
«Ho detto di fermare tutti i motorini e poi sarei passato io a dire chi trattenere e chi lasciare andare», racconta il luogotenente. Una versione che però non convince ancora una volta l’accusa. Secondo la procura, nell’informativa che ha portato all’arresto di alcuni presunti spacciatori, i finanzieri oggi imputati avrebbero scritto il falso facendo riferimento a una serie di servizi d’osservazione che avevano consentito di individuare i pusher mentre «occultavano 200 dosi di cocaina vicino i cassonetti». In realtà «gli stessi militari avevano saputo da Sapuppo che in quel luogo vi era la droga», si legge tra i capi d’imputazione. Anche in questo caso Bonomo ripercorre l’intercettazione ambientale di quel pomeriggio precedente al blitz ma successiva alla confidenza dell’uomo: «Stasera facciamo cinque-sei arresti, tutto sequestriamo. Già ho tutto in testa», diceva Caccamo ai colleghi in auto.
Tra i fermati di quella sera c’è anche un giovane disoccupato. Il suo nome è Filippo D’Amico. L’uomo, nell’udienza precedente, fornisce la sua versione dei fatti: «Ero andato in quella zona per farmi dare un motorino da un operaio di mio suocero». Uscito da un appartamento di via Capo Passero, dopo aver fatto salire a bordo un ragazzo per un passaggio, ecco la paletta dei militari, il controllo e il trasferimento in caserma: «Mi dissero che facevo la vedetta dal pomeriggio ma non era vero, sono stato anche denunciato per spaccio». I finanzieri, secondo quanto si legge nella richiesta di rinvio a giudizio, avrebbero incolpato D’Amico e altre quattro persone «pur sapendoli innocenti».
Riceviamo e pubblichiamo la precisazione del legale di Giuseppe Sapuppo in merito alle dichiarazioni del finanziere Francesco Caccamo: «Non corrisponde alla verità dei fatti la circostanza che Sapuppo Giuseppe avrebbe preso a braccetto un finanziere per fornirgli informazioni o cosiddette soffiate. Sapuppo Giuseppe, è giusto ricordarlo, in questo procedimento penale non è un confidente dei finanzieri imputati, ma risulta persona offesa, in quanto, secondo il capo di imputazione della procura di Catania, sarebbe stato minacciato, insieme alla moglie, nel corso della perquisizione presso la sua abitazione».