Regionali, la candidatura di Schifani e il peso del processo Nelle carte dell’indagine Montante nei panni di «Scaglione»

«Renato Schifani, detto Scaglione». Celebrata dagli alleati con note stampa all’insegna dell’unità, la designazione del senatore a candidato presidente della Regione ha dato il la ai primi attacchi dal fronte avversario. Il Movimento 5 stelle non ha perso l’occasione di «augurare buona campagna elettorale al senatore Schifani», per poi ricordare che la Sicilia rischierebbe di avere un governatore imputato ancor prima di insediarsi. Così non è da escludersi che, da qui a un mese, qualcuno possa venire fuori con un santino elettorale dai toni caricaturali dedicato proprio a Schifani. Strumento d’eccellenza per la comunicazione politica sotto elezioni, il santino potrebbe essere arricchito dalla locuzione «detto» spesso usata dai candidati per non dissipare voti, tra diminutivi e nomignoli con cui si è solitamente conosciuti. In questo caso, però, il fantasioso «detto Scaglione» tirerebbe in ballo il principale tallone d’achille del candidato del centrodestra: l’accusa di essere stato coinvolto nel sistema Montante. Schifani, infatti, dal 2019 deve rispondere dei reati di rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento in uno dei processi scaturiti dall’inchiesta che ha al centro l’ex paladino dell’antimafia, già condannato in secondo grado a otto anni.

Per i magistrati della procura di Caltanissetta, Schifani – in passato indagato per concorso esterno a Cosa nostra, per i rapporti avuti con diversi mafiosi, ma alla fine archiviato -sarebbe stato un anello della catena che avrebbe permesso al colonnello della Dia e dei servizi segreti Giuseppe D’Agata – anche lui a processo in primo grado – di sapere di essere indagato. Nelle migliaia di pagine dell’ordinanza che nel 2018 portò ai domiciliari l’ex numero uno di Sicindustria, il nome di Schifani ricorre una sessantina di volte. In un caso si tratta di una delle tantissime annotazioni prese da Montante sulle proprie frequentazioni. Abitudine che avrebbe rappresentato – secondo la tesi che finora ha retto in primo e secondo grado, seppur con una riduzione di pena – la base per l’ossessiva attività di dossieraggio poi utilizzata come arma per ricattare e conquistare potere. «13 settembre 2012: cena con Arturo Esposito poi incontrato Schifani e Vicari», si legge in uno dei file Excel sequestrati dagli investigatori. Ma la conoscenza tra i due, che a quel tempo avevano entrambi ruoli istituzionali, non è motivo d’imbarazzo né tantomeno di imputazioni. Ben diversa è la vicenda in cui Schifani è coinvolto insieme al funzionario dello Servizio centrale operativo (Sco) della polizia Andrea Grassi – condannato in primo e assolto in appello -, al caporeparto e al direttore dei servizi segreti interni, Andrea Cavacece e Arturo Esposito, e al professore universitario Angelo Cuva; tutti e tre ancora in attesa che si definisca il processo in primo grado. Con loro Schifani avrebbe contribuito a dirottare informazioni che sarebbero dovute rimanere riservate e che – come nel caso delle intercettazioni attivate nei confronti del colonnello D’Agata – avrebbero potuto mettere a rischio la stessa indagine.

È in questo contesto che l’ex presidente di palazzo Madama e papabile successore di Nello Musumeci sarebbe diventato «Scaglione» o, in alternativa, «il professore». Per gli inquirenti è proprio a Schifani che, a fine gennaio 2016, Angelo Cuva e Giuseppe D’Agata fanno riferimento nel corso di una telefonata. «Poi, Scaglione, ci sei passato, l’hai visto?», chiede D’Agata. Cuva lo rassicura: «Sì, sì. Ieri, primo pomeriggio, l’ho salutato». Quali siano stati i contenuti dell’incontro non è esplicitato. Schifani, peraltro, essendo senatore non poteva essere intercettato. Ma gli inquirenti ritengono comunque che in quel periodo i contatti tra il politico e Cuva – nel cui curriculum ci sono anche consulenze per Schifani – siano principalmente legati alle informazioni ambite da D’Agata. Nella ricostruzione dei magistrati nisseni, Cuva sarebbe stato il destinatario delle confidenze di Schifani, che a sua volta le avrebbe ricevute dal generale Esposito, all’epoca a capo dell’Aisi. Sul fatto che con «Scaglione» venisse indicato Schifani, gli inquirenti non hanno dubbi: nonostante la scelta del nome potesse in qualche modo creare confusione con un professore universitario conosciuto da Cuva, a sostegno della tesi investigativa ci sono una serie di elementi tra cui i dati relativi alle celle telefoniche agganciate dall’apparecchio del docente in occasione di uno dei contatti con Scaglione. Cella che si trovava a poche decine di metri dall’abitazione di Schifani. In un’altra circostanza, il 31 gennaio 2016, gli investigatori ricostruiscono un pranzo in un ristorante a Mondello a cui avrebbero preso parte i coniugi Schifani e Cuva. Il locale, vicino al mare, è frequentato da entrambe le famiglie, e a suffragare l’ipotesi sono, ancora una volta, le celle telefoniche. Dopo avere consumato il pasto. on Schifani, Cuva e D’Agata si sentono al telefono e il secondo «si recava urgentemente a Palermo per incontrare Cuva come da questi richiestogli», si legge nell’ordinanza. 

Quelle sono settimane calde per D’Agata. In quel periodo, infatti, inizia a emergere sull’asse Roma-Palermo il dubbio che le intercettazioni telefoniche tra l’ex ministro degli Interni Nicola Mancino e l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ufficialmente distrutte tre anni prima, possano essere state duplicate. D’Agata, all’epoca delle intercettazioni alla guida della Dia di Palermo, è uno di coloro che vengono chiamati ad assicurare che non ci sia più traccia di quei dialoghi captati durante le indagini sulla Trattariva Stato-mafia. Si tratta di uno dei tanti misteri che ruotano attorno alla figura di Antonello Montante: a oggi, infatti, non è stato escluso che una copia di quella conversazione possa essere finita nelle mani dell’ex paladino dell’antimafia. E ad alimentare le perplessità è stato Marco Venturi, l’ex braccio destro e poi accusatore di Montante, che ai magistrati ha detto di avere assistito alla consegna di una pen drive da parte di D’Agata a Montante. Forse una delle oltre cinquanta che l’industriale di Serradifalco ha distrutto pochi minuti prima del blitz della polizia a maggio 2018.

Rileggendo le carte dell’inchiesta Double Face, ci si imbatte anche in un’intercettazione che non ha nulla di penalmente rilevante ma che tratta di politica tirando in ballo Schifani. A parlare è sempre Angelo Cuva. È il 2016 e, pur non essendoci imminenti scadenze elettorali, l’interlocutore chiede a Cuva quali saranno le future mosse di Schifani, all’epoca uomo di punta del Nuovo centrodestra, la formazione politica fondata con Angelino Alfano. Schifani era ormai in rottura con il partito. «Dove si candida? Ma non è solo suo il problema, il problema è di tutti questi ex diciamo Ncd che sono tanti e poi i posti saranno pochi perché loro da soli non possono aggregare niente. Dovrebbero confluire in teoria nelle liste del Pd», ragiona Cuva. All’epoca, infatti, Ncd era al governo con il centrosinistra guidato da Matteo Renzi. In realtà, il percorso di Schifani sarà diverso: ad agosto del 2016, il senatore lascerà il Nuovo centrodestra per rientrare in Forza Italia. Il partito che sei anni dopo lo acclamerà come l’uomo giusto per guidare la Sicilia. 


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