Reddito di libertà regionale per le donne vittime di violenza: «A Catania solo 5 percorsi su 130 casi, serve stabilità»

Dal canone di affitto di un appartamento o di una bottega alle spese per ottenere una licenza o un’autorizzazione. Un sostegno per casa e lavoro, due degli ostacoli principali per il 30 per cento delle donne vittime di violenza, la cui mancanza impedisce loro una nuova vita indipendente. Per sé e per gli eventuali figli. A finanziare almeno in parte queste spese sarà il nuovo reddito di libertà istituito dalla Regione siciliana con l’assessorato alle Politiche sociali. Una delle promesse dell’assessore uscente Antonio Scavone, arrivata proprio sul filo. E con l’avvicendamento di governo in vista a dettare i tempi già stretti per le procedure d’accesso al fondo: quasi 235mila euro per progetti da un massimo di 10mila euro ciascuno, da presentare a partire dal 10 ottobre ed entro fine mese. «Una buona notizia, ma purtroppo una misura che rischia di rimanere spot e per di più a esaurimento, quindi senza giudizio sui progetti ma solo in base alla velocità della domanda», commenta Anna Agosta, presidente del centro antiviolenza di Catania Thamaia, ospite a Ora d’aria, in onda su Sestarete tv-canale 81 e Radio Fantastica.

A occuparsi dei piani personalizzati saranno i Comuni insieme ai centri antiviolenza e alle case rifugio a indirizzo segreto iscritte nell’apposito albo regionale. «E questa è davvero una novità importante – prosegue Agosta – perché, nella versione precedente del piano, per accedere servivano sia la documentazione dei centri antiviolenza che dei servizi sociali. Molte donne sono state così tagliate fuori: alcune perché non accedevano ai servizi comunali per non perdere l’anonimato e altre perché si trovavano magari in una casa rifugio, ma senza un centro antiviolenza sul territorio». Tra le spese ammissibili ci sono canoni di affitto privati e lavorativi, attrezzature, arredi, materie prime, allaccio delle utenze, polizze assicurative, licenze, permessi e autorizzazioni. Ciascun Comune potrà presentare un numero massimo prefissato di progetti, non oltre i cinque: limite per i capoluoghi di provincia o le grandi città con più di 30mila abitanti.

Di certo un inizio, seppure con numeri che non potranno risolvere il problema, in crescita durante la pandemia e il primo lockdown. «Rispetto alle donne che chiamano, quelle che si presentano sono poco più del 50 per cento – spiega Agosta – E già così, al momento, abbiamo 130 percorsi avviati. Non possiamo scegliere e giudicare: esattamente come la misura, si dovrà fare a chi arrivare prima». Una esiguità di risorse che si scontra anche con i continui ritardi delle amministrazioni comunali nell’erogazione dei fondi per le attività base, quelle di ascolto e sostegno, dei centri antiviolenza. Appena prima del Covid, a fine 2019, lo stesso centro Thamaia rischiava la chiusura. Con le responsabili che hanno attinto ai propri risparmi, in attesa di 70mila euro dovuti dal Comune di Catania e in ritardo di anni. Eppure la correlazione tra fondi pubblici e aiuto alle vittime è evidente nei dati presentati per i 20 anni del centro, lo scorso anno: ogni qual volta si è riusciti ad avere più personale ai telefoni e a restare aperti per più ore – grazie ai finanziamenti -, si ricevevano più chiamate. Una domanda, insomma, più grande dell’offerta d’aiuto disponibile. Per un totale di oltre cinquemila donne sostenute in due decenni.

«Per questo, pur accogliendo positivamente la misura, noi puntiamo a percorsi stabili contro la violenza sulle donne – conclude Agosta – Che comprendano stabili finanziamenti ai centri antiviolenza per il sostegno e l’avviamento dei percorsi, la formazione a chi si interfaccia con le donne, come magistrati e forze dell’ordine, e ovviamente le azioni di sensibilizzazione a scuola. Perché è lì che si può davvero attivare quel cambiamento culturale che è alla base».


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